LA TRILOGIA DEGLI ZOMBIE DI GEORGE ROMERO
CINECRITICA n. 34-35 (aprile-settembre 2004)
LA TRILOGIA DEGLI ZOMBIE DI GEORGE ROMERO
L’orrore non è soltanto la semplice percezione di una determinata realtà ma anche la sua stessa evidenza fisiologica come rileva perfettamente il colonnello Kurtz in Apocalypse now, 1980, di Francis Coppola, evocandone con la parola (l’orrore, l’orrore!…) la sinistra suggestione e al tempo stesso la concreta rappresentazione. Quando per la prima volta apparve sugli schermi l’opera prima di un giovane cineasta indipendente americano di origine caraibica, Night of the living dead (La notte dei morti viventi, 1969), calata in un bianco e nero di inquietante efficacia, fu subito chiaro ai critici più avveduti che si trattava di una specie piuttosto rara di horror politico-metafisico che, pur partendo da una semplice ipotesi di science-fiction (l’esplosione di un’epidemia collettiva generata da radiazioni tossiche prodotte a loro volta da uno strano meteorite che ha il potere di ridare la vita ai morti), sulla base di un romanzo di Richard Matheson, tentava tuttavia l’esplorazione di zone oscure del comportamento umano in una forma affatto moderna che ha felicemente vanificato il proprio modello letterario, altresì inaugurando la più convincente espressione di horror moderno.
Lo scontro apocalittico e dunque definitivo tra vivi e morti viventi, ossia tra due specie non nettamente antitetiche, lasciava intuire che vi fosse un substrato politico ma anche biblico dove l’uomo non riconosce più i suoi simili, ingaggiando con essi una lotta furibonda e cruenta il cui destino dovrebbe essere l’autodistruzione della razza umana.
In un’epoca, (la fine degli anni sessanta) in cui la cultura pacifista yippie radicalizzava il proprio messaggio alimentando lo scontro sia con il potere politico americano, sia con la cosiddetta maggioranza silenziosa, che di quel paese è la colonna fondante, quel piccolo capolavoro girato a basso costo e in poche settimane, dovette apparire davvero profetico. Vi è infatti una evidente analogia tra la sequenza finale del film in cui un gruppo sparuto di “buoni americani” giocano al tiro al bersaglio contro un uomo di colore (uno dei protagonisti della storia), barricato nella casa dove si svolge quasi interamente l’azione, scambiandolo volutamente per uno zombie, e quella altrettanto conclusiva di un’opera emblematica come Easy Ryder, 1968, di Dennis Hopper, in cui i due yippies sulle motociclette, felicemente in viaggio sulle strade d’America, vengono colpiti a morte proprio da due esponenti della società più conformista, che alla cronica paura del comunismo univa ed unisce l’odio verso qualsiasi espressione che segnasse una diversità. L’introduzione dell’elemento, per così dire antropofagico, che nella letteratura brasiliana del ‘900 segna addirittura una particolare ricerca linguistico formale e comunque un pensiero poetico “forte” (1), ha una specifica valenza metaforica nel momento in cui la rappresentazione del conflitto tra umano e non-umano svela il meccanismo di sopraffazione che informa fin dal principio della vita, l’agire dell’uomo, mostrando altresì come di fronte ad una minaccia immaginaria (gli zombi appunto, ma vi potremmo benissimo sostituire il cosiddetto “pericolo comunista”), l’uomo urbanizzato si trasformi nel carnefice dei propri simili. Tuttavia se nella violenza messa in atto dagli zombi, queste creature ripugnanti nella loro metamorfosi eppure così di fatto simili agli uomini, è resa esplicita l’idea di una fame atavica e animale, dunque della necessità, o se si vuole, di un’apocalisse annunciata, in quella invece dei “vivi”, permane piuttosto il rito sadico della violenza intesa nell’accezione ambigua di necessità e di piacere, proprio come avviene nel'”homo bellicus” moderno. Inoltre va sottolineato come il termine “zombi”, di fatto appartenente alla tradizione antropologico-culturale haitiana, sia apparso per la prima volta nel cinema in un b-movie americano (oggi peraltro assai celebrato dai cultori del genere), dal titolo “Ho camminato con uno zombi- J walked with a zombie”,1943 del regista di origine francese Jacques Tournier. In quell’operina dai tratti suggestivi e inquietanti, la figura dello zombi veniva ancora identificata con quella dello schiavo nero, sottomesso in forme umane quasi catatoniche e dunque Romero ne attualizza il clima di inquietudine proiettandolo in un substrato urbano contemporaneo dove il potenziale conflittuale si innerva metaforicamente, nel tessuto del racconto, ossessivamente ritmato dall’orrore dei corpi e dalla riduzione-semplificazione degli spazi fisici, di volta in volta identificabili nella trilogia, con luoghi quotidiani e al tempo stesso emblematici come la casa, il centro commerciale e un bunker-fortino, dai quali riemerge appunto nei singoli racconti una sorta di quotidianità rimossa; in altre parola si tratta di luoghi “invasi”, dove non vi sono più regole morali né tabù, che nell’atto di riappropriazione da parte dei cosiddetti “morti viventi”, si rivelano perciò impraticabili per i “vivi”: ossia svuotati di senso, o ancor meglio laddove il senso non è che una monade impazzita oppure un relitto di senso. La fuga da quest’ultimo, rappresentato nella dinamica del racconto, dalla disperata ricerca di un altrove illimitato, di uno spazio esterno da cui avviare un lento ma inevitabile processo di “liberazione” (sia dallo zombi come entità nemica in senso fisico, che in quello morale), viene assumendo valenze utopiche rivelando al tempo stesso di essere solamente punto di non ritorno per la razza umana, nella marcia illusoria verso un’improbabile salvezza. Ci viene nuovamente in aiuto il confronto con l’opera-cult di Dennis Hopper: se per i due hippies lo spazio esterno rappresentava l’asse dialettico molto sixtheen di libertà-conoscenza-improvvisazione, per i fuggiaschi di Romero, esso, altro non è che luogo neutro di attraversamento, senza nome, ossia azzerato come la stessa America con i suoi molteplici deserti urbani, tuttavia insidioso proprio in quanto contenitori di qualsivoglia fantasia e materia, tra le quali possono stare benissimo anche gli zombi, prodotto di un immaginario collettivo fortemente ansiogeno come quello nordamericano. Questi ultimi, in fondo non sono di specie molto diversa dai vivi, dei quali condividono sembianze e abitudini, ad eccezione dell’istinto cannibalico che, come in un rito arcaico e cruento agli arbori della civiltà, li spinge a nutrirsi avidamente dei simulacri di ciò che sono stati.
La città infatti si pone come l’ultimo baluardo ma anche il teatro dell’azione finale di questi non-morti dall’aspetto ripugnante e ridicolo al tempo stesso, la caricatura deforme del mondo a cui essi appartenevano. La politicità di Romero sta dunque nell’implicito je accuse contro una società impazzita capace con la forza dell’immaginario di massa di proiettare le proprie ossessioni (ora quella verso il mondo musulmano) a livello planetario ma altresì nell’ambiguità nell’uso lucidamente sfacciato di un codice linguistico formale dell’irrealtà. Ne La notte dei morti viventi, i legami di sangue fratello-sorella e padre-figlia vanno in pezzi proprio con l’infrangersi dei tabù familiari introdotto dalla presenza dei morti viventi, portatori di un senso di orrore che da arcano si trasforma in quotidiano. Ma se in quest’opera la metafora era comunque circoscritta ad un piccolo gruppo di umani, ossia ad un campione limitato di patologie umane, nel successivo Zombi, Down of the dead, 1978, essa di allarga all’intera società nordamericana, ossia alla sua massificazione; spinti da un istinto famelico di fame atavica e dalla memoria del luogo più amato nella vita reale, (vivi e morti viventi rappresentano rispettivamente il reale e l’immaginario che si annullano a vicenda per giungere finalmente a confondersi), il grande centro commerciale; gli zombi sognano di entrarvi ancora una volta, ma il loro accesso al solo ed unico paradiso in terra viene loro negato dal gruppo di fuggiaschi, veri protagonisti delle tre storie, per i quali il paradiso è invece un diritto e una terra di conquista. In quest’opera decisamente più spettacolare, la dimensione dell’orrore si allarga e si dilata oltre i limiti visivi della sopportabilità affinchè lo spettatore mediti sul destino autodistruttivo della razza umana. La violenza delle immagini che giungono dirette al pubblico stabilisce un’evidente analogia con la stessa crudeltà con cui agiscono gli zombi sugli umani, trascinandoli nel proprio abisso. Mentre la nobiltà del vampiro risiede nel fatto di essere condannato all’eternità, la maledizione dello zombi consiste in fondo nell’essere la caricatura dell’umano, tuttavia condividendo con esso la medesima fame, metaforicamente identificabile in una sorta di cannibalismo consumistico.
Nel terzo film della trilogia, Il giorno degli zombi, 1985, certamente il meno perfetto, l’azione come si è detto, si sposta all’interno di un bunker-fortino, senza più riferimenti al mondo esterno, mentre resta inalterata l’intera struttura narrativa. Romero vi introduce un elemento nuovo di un certo interesse: la figura del tutto caricaturale di uno scienziato pazzo, sorta di Frankenstein fumettistico, intento ad allevare un morto vivente allo scopo di umanizzarlo e di inventare una nuova specie, contrapposta a quella di un militare ottuso e guerrafondaio, il quale finisce divorato dagli zombi, come testimone esemplare di una mentalità regressiva e dunque ripugnante. Il sogno delirante di rieducazione dello zombi affinchè possa ridiventare uomo, mostra apertamente che tra i due non vi è poi tanta differenza, che insomma l’uno non è che la coscienza demente dell’altro, o se si vuole l’ennesima illusione della scienza col suo assurdo intento di rieducazione dei mostri.
Note
1. Si tratta di un movimento letterario d’avanguardia fondato a San Paolo dal poeta Oswald de Andrade nel 1928 con il Manifesto antrofago.
2. Nel film di Z.Snyder L’alba degli zombi, 2004, basato su un soggetto dello stesso Romero il quale tenta di riscrivere Zombi con sguardo più spietato ma al tempo stesso più ironico, negando nell’epilogo geniale e cruento il valore di qualsiasi utopia, qui rappresentata da una piccola isola deserta che i due protagonisti superstiti in fuga, raggiungono con la speranza di nascondervisi, ma anch’essa è ormai infestata dai morti viventi. Mentre Zombi di Romero si chiudeva con un filo di speranza su una spiaggia solitaria (dove finalmente la razza bianca e quella nera si uniscono nel nome di una nuova progenie), quest’ultima opera spinge sino all’estremo limite la necessità di un’apocalisse definitiva.
Filmografia essenziale sugli zombi
Ho camminato con uno zombi, 1943, di Jacques Tournier
La notte dei morti viventi, 1969, b/n, di George Romero
Zombi, 1971, di George Romero
Il giorno degli zombi, 1985, di George Romero
Il serpente e l’arcobaleno, 1988, di Wes Craven
La notte dei morti viventi, 1990, colore, di Tom Savini
L’alba degli zombi, 2004, di Z. Snyder