IL CINEMA DI ROBERT GUEDIGUIAN
CINECRITICA n. 33 (gennaio-marzo 2004)
LA CITTA’ DELL’UOMO: IL CINEMA DI ROBERT GUEDIGUIAN
Marsiglia. Esterno. Giorno
Da Notre-Dame de la Garde, mistica sentinella posta in cima alla collina, si abbraccia per intero la città e il mare. Quel “mare nostrum” da cui si parte per poi sempre ritornare e che “chiude” tragicamente l’avventura umana e sentimentale di Marie-Jo e del suo compagno-marito-amante.
Nel passeggiare lungo il Vieux-Port, affollato di barche d’ogni tipo e di ristoranti e volgendo lo sguardo verso il Panier, la città vecchia, mi accorgo che questa metropoli del mediterraneo, non bella ma segretamente suggestiva, è la proiezione reale e immaginaria della fantasia e della memoria di un marsigliese tenacemente radicato nella città e nel suo tessuto sociale e culturale pur tuttavia rifiutandone la deriva politica reazionaria di stampo razzista legata al Front National di Jean-Marie Le Pen. Guédiguian nasce da una famiglia di origine proletaria, proprio lì a due passi dal porto, nel quartiere dell’Estaque dove vivono alcuni dei suoi personaggi più significativi. In questo quartiere, architettonicamente caratterizzato da una serie di corti chiuse su cui si affacciano alloggi di piccole dimensioni, depositi e magazzini artigianali, vi è tutta la malinconia delle cose perdute, delle trasformazioni materiali e sociali che modificano alla radice il destino degli uomini. Quella del porto ha raggiunto nel tempo una dimensione epocale e drammatica al tempo stesso, lasciando la città nel più grave disagio e sconforto. La perdita di centinaia e centinaia di posti di lavoro e la progressiva crescita del fenomeno dell’immigrazione nell’ultimo decennio, che qui raggiunge le più alte punte dell’Europa meridionale, provoca scompensi e fratture nel tessuto sociale. Si tratta, come è ovvio, di una materia che rientra nella categoria del politico, ma innanzitutto va detto come la “politicità” nel cinema di Guédiguian si esprima attraverso un codice narrativo che ne rifiuta il carattere esplicito, ossia il diretto coinvolgimento dell’elemento, per così dire, esplicitamente ideologico. In altre parole esso non compare in funzione di sovrastruttura, ma di necessità naturale, ossia come strumento attivo e testimone di una precisa consapevolezza sociale e politica che è innanzitutto presa di coscienza della propria condizione di lavoratore precario o disoccupato. Dalla crisi del porto mercantile e alla chiusura delle fabbriche o al loro spostamento altrove al disastro individuale e famigliare, il passo è breve, come del resto non vi sono più differenze sostanziali fra una metropoli e l’altra del Mediterraneo almeno per ciò che riguarda il mercato del lavoro e l’immigrazione, regolare o clandestina che sia. La prospettiva infausta di una globalizzazione forzata, noncurante innanzitutto dei diritti delle masse dei lavoratori, conduce verso l’omologazione delle idee, dei comportamenti e finanche delle singole povertà. In tal senso la necessità e insieme il desiderio di rappresentare la condizione umana di fronte alla crisi del lavoro e alla difficoltà dell’integrazione, fanno di Guédiguian un cineasta di respiro europeo più che semplicemente francese o marsigliese. Eppure è in questa città e non altrove, che le sue storie prendono corpo e diventano ciò che realmente sono, piccoli ma autentici drammi quotidiani che attendono una loro risoluzione, talora impossibile.
A sostegno di tale tesi, un’opera come La ville est tranquille, 1999, si rivela in certo modo esemplare. La stessa ironia sottintesa nel titolo è già una preziosa indicazione sul clima psicologico che si respira nelle grandi città. L’inquietudine e il malessere sociale ed esistenziale vissuto dai tre personaggi del film, sfuggono tuttavia a discipline e a categorie analitiche. Nella complessa tessitura polifonica su cui poggia il racconto, si definisce una sottile relazione tra i soggetti e la dimensione urbana nella quale essi agiscono, a cominciare dal giovane povero, enfant prodige del pianoforte, che all’inizio vediamo dare un concerto su di un grande spazio erboso collinare, visibile da qualunque parte lo si guardi, proprio in faccia alla città intera che fatica ad accorgersi di lui. Nella sequenza finale due uomini di fatica consegnano un pianoforte al ragazzo povero nel vecchio quartiere popolare così finalmente egli potrà continuare ad esercitarsi in solitudine, lontano dal clamore e dalle sale da concerto. Si tratta di un raro frammento cinematografico interamente giocato sul contrasto tra ambienti urbani, e dunque particolarmente raro nell’opera di Guédiguian, tutta modellata sul piccolo universo dei suoi personaggi “proletari”, brechtianamente forti della propria origine e del proprio radicamento. Tuttavia è appunto nella vecchia struttura sociale e famigliare basata sulla dignità del lavoro, che si producono le prime crepe: quella che il regista ci presenta è una piccola parte di quel “microcosmo dei vinti” il quale tuttavia non vuole arrendersi, pragmaticamente, e ad un mondo migliore e perfino utopico, ma preferirebbe riavere il proprio, del quale, in fondo è stato privato.
Nella breve incursione nel ristretto e non amato ambiente della borghesia marsigliese, fatto per lo più di politici, professionisti e speculatori, finti comunisti e intellettuali di lusso, architettonicamente identificabile nella grande terrazza da cui si ha il dominio e il controllo, reale e simbolico sull’intera città, le opzioni suggerite da Guédiguian sono due, entrambi radicali: la prima riguarda la bellezza e la seduzione come esperienza che precede e trascende con la forza del proprio immaginario qualsiasi discorso o rivendicazione politiche. La seconda, invero complementare alla prima, contempla l’omicidio come estremizzazione di un’idea di giustizia sociale che non trova la sua giusta applicazione nella realtà del diritto.
La città è il contenitore e il termometro dell’emozione e dell’esperienza che da essa si genera e che da essa si allontana verso altre latitudini, reali o immaginarie.
La città riflette urbanisticamente le stratificazioni sociali: la protagonista femminile (l’attrice-feticcio Ariane Ascaride, moglie del regista), che vive con il marito disoccupato, la figlia drogata e un bambino più piccolo in uno dei tanti moderni quartieri di palazzoni sorti nelle immediate periferie, è costretta a percorrere molta strada in ciclomotore per raggiungere il posto di lavoro, ossia il mercato del pesce. La lenta ma inevitabile espulsione dei vecchi abitanti (operai, portuali, artigiani) dagli antichi quartieri dell’Estaque e del Panier, presenta “isole” di resistenza in cui l’eccezione, non solo tende a confermare la regola ma ad evidenziare il senso d’isolamento e di sopravvivenza, da cui sovente scaturisce, come tra i due genitori e vecchi operai di Al posto del cuore, un gesto di solidarietà, che è soprattutto gesto “di classe”.
Alcuni tra i personaggi dei film di Guédiguian vivono ancora nelle strette viuzze del Panier (come il pilota di piccole navi di avvistamento in Marie Jo e i suoi due amori, che dalla finestra di casa può abbracciare l’immensa distesa del mare, oppure la coppia mista del giovane scultore di colore e della sua ragazza, o piuttosto negli ormai cupi cortili dell’Estaque come il padre del ragazzo di colore adottivo, di professione artigiano nel film succitato, la cui fondamentale solitudine bene si rappresenta nell’alternarsi di luci ed ombre radenti che segnano visivamente questo quartiere), testimoniando non tanto un modello sociale di esistenza, ma più semplicemente una sorta di status cosciente di dignità umana che, in altre parole, si esprimerebbe attraverso l’accettazione consapevole dell’essere esattamente come si è, senza le illusioni offerta dalla cosiddetta “città borghese”.
Anarchici e solitari, generosi o deboli, tolleranti e malinconici ma mai veramente piccolo-borghesi si rivelano i suoi personaggi, tali da suggerire un probabile confronto con quelli assai più celebrati del regista inglese Ken Loach. Nell’affrontare le difficoltà della vita quotidiana, essi tendono a mettersi in gioco anche rischiosamente, come la stessa madre che per procurarsi il denaro per la droga di cui la figlia ha bisogno accetta di prostituirsi al taxista abusivo che a sua volta nasconde agli anziani genitori la propria condizione, o come lo stesso proprietario del bar, amico della donna, che dopo aver fatto giustizia di un politico di destra corrotto, si toglie la vita. In ogni momento della loro vita la città è ora testimone, ora istigatrice ma sempre neutra e dunque irraggiungibile.
Personaggi che anche quando sfiorano la tragedia non sono mai autoconsolatori, e che a loro modo sfatano il mito della narrazione classica dove a tante difficoltà e peregrinazioni deve ad ogni costo corrispondere un riscatto positivo, un lieto fine. Ma la risoluzione dei problemi non spetta necessariamente al meccanismo autoreferenziale del racconto ma alla realtà esterna da cui il racconto stesso prende le mosse. In altre parole la tessitura del film, strutturalmente polifonica, si modella sul ritmo interno ad ogni singolo personaggio e sul logos che stabilisce le relazioni tra di essi, e che trova nelle forme della città la più segreta delle risonanze.
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Filmografia di Robert Guédiguian
1980 DERNIER ETE
1983 ROUGE MIDI
1985 KI LO SA ?
1989 DIEU VOMIT LES TIEDES
1992 L’ARGENT FAIT LE BONHEUR
1994 A LA VIE A LA MORT !
1996 MARIUS ET JEANNETTE
1998 A LA PLACE DU Cœur-Al posto del cuore
1999 A L’ATTAQUE !
1999 LA VILLE EST TRANQUILLE
2001 MARIE-JO ET SES DEUX AMOURS-MARIE-JO E I SUOI DUE AMORI
2003 MON PERE EST INGENIEU-MIO PADRE E’ INGEGNERE
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MARSIGLIA, LA LOTTA E L’UTOPIA. INTERVISTA A ROBERT GUEDIGUIAN
Incontro Robert Guédiguian a Parigi, città che negli ultimi decenni ha perso un po’ del suo irresistibile fascino intellettuale, nel suo atelier all’undicesimo arrondissement, quasi al confine con il quartiere multietnico di Belleville. E’ un luogo molto spazioso, all’interno di un cortile, posto su tre piani aperti su grandi vetrate. E’ un ambiente molto accogliente, non elegante ma un po’ spartano e popolato di giovani donne, tutte collaboratici del regista.
E’ una persona gentile e disponibile nonostante l’ora tarda. Scopro innanzitutto che Robert ha aperto i lavori del Forum europeo del movimento no-global che si svolge proprio in questi giorni, insieme al contadino ribelle Bovè; di questo parliamo e di altre cose che naturalmente riguardano Marsiglia, il suo cinema e la speranza delle utopie.
Intervista con Robert Guédiguian
M.F.M.: Come avviene il tuo incontro con il cinema?
R.G.: Completamente per caso. Ho incontrato un cineasta che aveva già fatto dei film, l’avevo conosciuto tramite Ariane, la mia compagna, che faceva già teatro e studiava al conservatorio di Parigi. Infatti questo cineasta preparare un adattamento del romanzo Berlin Alexander Platz di Doblin. Lui mi aveva proposto di fare la sceneggiatura di questo film perché mia madre era tedesca e io ho la reputazione di essere specialista del marxismo, di Brest, di Doblin. Ma il lavoro non andò in porto perchè Fassbinder aveva già comprato i diritti del libro. Quindi lui mi propose di continuare a lavorare insieme, ma dopo qualche settimana, mi resi conto che non volevo lavorare sulle idee altrui, capii che volevo fare del cinema utilizzando miei soggetti.
Quindi il mio rapporto col cinema è iniziato prima di tutto con la scrittura cinematografica, non con la realizzazione, ossia con il fare cinema in senso stretto.
Tutto quello che mi aveva interessato prima era la militanza politica e non fu un caso il fatto che quando mi proposero di cominciare a lavorare a questa sceneggiatura io stavo uscendo dal partito comunista francese. Ero talmente tormentato dal partito che quando il cinema ha incrociato la mia vita mi ci sono attaccato riuscendo così a manifestare le mie inquietudini.
M, F.M. Quanto è durata questa esperienza con il partito comunista.
R.G.: Sono nato nel quartiere più comunista di Marsiglia, l’Estaque. E quando avevo 14 anni, nel 1968, sono stato il primo a fare sciopero nella mia scuola e fino al 1968 ho seguito il partito. Oggi sono sempre comunista anche se non sono più nel partito. A me interessa il concetto di comunismo.
M.F.M.: Cosa significa essere comunisti oggi?
R. G.: Si continua a pensare che oggi ci sia un interesse generale nei confronti del comunismo. Perché si pensa che il capitalismo non sia la miniera del mondo e che il comunismo si interessi del bene comune di tutti gli uomini. Credo nell’idea di comunismo e credo che esso ritornerà al più presto ad essere in auge, ma in forme diverse.
Essere comunisti oggi vuole dire riprendere in mano una sorta di utopia. Tutto ciò che ha a che fare con il Social Forum ha a che fare con il comunismo. Questo è un problema a cui si gira intorno, ma non si dice. Non ci sono altre forme, oggi abbiamo solo il Social Forum contro il capitalismo. Una sola alternativa.
Tutti i beni comuni (acqua, trasporti) che stanno privatizzando, sono beni nostri e dobbiamo cercare di riappropriarcene. Questa è una forma di comunismo, che il popolo si appropri dei beni comuni.
M.F.M.: Torniamo all’Estaque. Come nasce nel tuo cinema il rapporto con la città? Tu sei uno dei pochi registi oggi in Europa che crea una poetica della città e questo mi sembra molto importante. Penso che in Italia, e per esempio anche a Genova, manchi un regista che riesca a cavare fuori l’anima più profonda della città.
R.G.: Ho considerato dapprima spontaneamente e poi coscientemente che la città era il mio linguaggio. E’ la città stessa che racconta i personaggi, da loro corpo e spessore. Ho sempre scelto luoghi, ambienti urbani significativi. Il mio è un cinema di appunti, sopralluoghi, come quello di Pasolini. Ho fatto sempre i sopralluoghi con il mio scenografo. Prima di tutto non mi preoccupo della luce, i problemi della macchina da presa, ma della scenografia. In genere i cineasti fanno i sopralluoghi con l’operatore, io prima vado con lo scenografo, poi penso ai problemi tecnici. Cerco il luogo per quello che significa, come in teatro. Ho sempre detto che Marsiglia è il mio teatro, un immenso teatro. In gennaio comincerò per la prima volta a girare un film a Parigi, ma girare a Parigi mi sembra strano mi sembra di essere all’estero; la lingua è strana, non è la mia. Comunque mi interessa come interpreterò la città. Il film parla della morte del presidente Mitterand.
Nei dodici film che ho fatto in vent’anni ho sempre lavorato con la stessa equipe e gli stessi attori. Quindi è come se avessi lavorato in un teatro, come Fassbinder, Pasolini, che hanno compiuto un lavoro collettivo da un lato e in più un lavoro soggettivo dall’altro. Un lavoro personale che ha un peso enorme nei loro film. Essi raccontano una storia, ma sono sempre tormentati. In questi registi la preoccupazione formale è fondamentale, ma allo stesso livello di importanza abbiamo il contenuto dei loro film.
M.F.M.: Cosa rappresenta girare in un quartiere come l’Estaque. Cosa cerchi di “estrarre da questo paniere”. Cosa rappresenta per te. Cosa nasce, cosa esce dai muri di questo quartiere.
R.G.: Questo quartiere incarna perfettamente il mondo operaio, il suo declino ed è un po’ la mia biografia. Ritrovo le case operaie, le fabbriche. Non ho mai fatto la sociologia di Marsiglia nei miei film. Ho sempre detto “giro a Marsiglia”, faccio film a Marsiglia e non su Marsiglia. Sono uno specialista di questa città.
M.F.M. Purtroppo invece nessuno è stato capace di fare questo con Genova che è un perfetto set naturale. Nessuno è stato capace di girare storie genovesi radicate proprio nel tessuto della città. Penso che il tuo cinema sia universale ma comunque radicato nel mondo operaio di Marsiglia. La città da segni della sua vitalità. Le stesse storie ambientate in un’altra città avrebbero lo stesso significato?
R.G.: Se prendessimo per esempio la sceneggiatura di Marius e Janette e qualcuno la girasse a Liverpool, Amburgo, Genova (tutte città industriali di porto) dovrei comunque trovare una città al bordo dell’acqua, industriale, ma non avrebbe gli stessi colori, la stessa atmosfera di Marsiglia. Marsiglia è particolare per la sua mediterraneità cioè per lo scambio, anche il “commercio”, di uomini, idee, merci.
M.F.M.: Quindi la città multietnica, l’intreccio di culture. Genova e Marsiglia in questo senso hanno lo stesso problema, quello di creare una sorta di dialogo tra le varie civiltà. Come si sono integrati a Marsiglia in questi ultimi anni il problema dell’immigrazione e quello del declino del porto? C’è stata una trasformazione della città?
R.G.: C’è un integrazione: la gente che lavorava nel porto ora diventa, per esempio, direttore d’hotel, spesso chi lavora nel turismo è gente araba. Vista la fine del vecchio mondo industriale c’è un continuo integrarsi in nuovi lavori.
M.F.M.: Parlami del rapporto della città con la politica di estrema destra francese. Noi italiani conosciamo Marsiglia anche in questo senso, il suo rapporto con Le Pen, l’oltranzismo di destra. Che tipo di rapporto c’è realmente tra la classe operaia, quella degli immigrati di Marsiglia, e il voto dato all’estrema destra?
R.G.: La gente che ha bisogno di lavoro, come in altre grandi città, vota estrema destra. Da anni la destra porta avanti questa idea che lo straniero ha il lavoro che noi non abbiamo, quindi il voto a destra è un voto di protesta come reazione alla paura di rimanere senza lavoro. E’ un voto “reazionario” nel senso teorico del termine. Reazione alla paura e alla perdita.
M.F.M.: Esiste una forma di integrazione fra l’immigrato e il cittadino marsigliese?
R.G.: Come al solito: la seconda generazione italiana (c’è stata a Marsiglia anche una immigrazione italiana) è razzista contro gli arabi. E’ una cosa generazionale. Forse tra una generazione gli arabi saranno razzisti con i cinesi. C’è una catena endemica che non risparmia nessuno. E’ un processo irreversibile.
In periodi in cui c’è lavoro per tutti. Quando avevo dieci anni, negli anni sessanta, non c’era razzismo perché non c’era neanche un disoccupato.
M.F.M.: Come avviene il processo di smantellamento delle fabbriche storiche, del porto, che si sente nei tuoi film, questo senso di disagio. Come avviene questo? E’ un processo tipico di Marsiglia, o un po’ di tutta la Francia?
R.G.: Avviene in tutta la Francia, ma si nota soprattutto a Marsiglia perché è una città grande e questo è più visibile.
M.F.M.: Qualcuno ti ha paragonato a Ken Loach, non come modo di girare o come modo di fare cinema, ma come approccio ideologico alla realtà. Entrambi, forse, pur essendo molto diversi, utilizzate l’ideologia marxista in maniera funzionale alle storie che raccontate, non in maniera predeterminata. L’ideologia, secondo me, viene fuori, dall’incrociarsi delle vite dei personaggi, per cui la politicità del tuo cinema e di quello di un Ken Loach, perché penso che esista veramente un’affinità, non è quello che nasce da un’idea di partito, da un’idea preconcetta, ma viene fuori dal confronto dai personaggi e dalla realtà sociale in cui sono in qualche modo chiamati a vivere. Condividi questa definizione o vuoi aggiungere qualcosa?
R.G.: Bisogna anche insistere sull’aspetto formale. Ci sono delle affinità con Ken Loach, ma in fondo le preoccupazioni sono diverse. Raccontiamo entrambi il disagio nelle città industriali. Nel mio cinema c’è più formalismo, molto più teatro, più stilizzazione, più allegoria. Lui è più narrativo. Ci sono delle affinità personali, Méliès e Lumière sono i due archetipi del cinema, come se quello che si filmasse fosse tutto vero, o al contrario si comprende come sia tutto falso. Sebbene Ken Loach faccia del naturalismo cinematografico al tempo stesso sappiamo bene che tutto nel cinema risulti essere falso, come a teatro.
M.F.M.: Quindi torniamo a Fassbinder. Lui si era dibattuto tra le due concezioni, quella naturalistica e quella della finzione teatrale, del falso.
R.G.: Si, lì è evidente il concetto della falsità. Ken Loach invece è interamente naturalista. Quello che riesce a fare degli attori è straordinario.
M.F.M.: E quale è il film di Ken Loach che hai apprezzato di più?
R.G.: Lady bird, lady bird.
M.F.M.: Con La ville est tranquille hai costruito una vera e propria polifonia urbana, una definizione quasi musicale. Ma cosa lega tra loro personaggi così differenti; la solitudine, la città stessa o forse elementi più intimi, più nascosti, o infine la trasformazione di Marsiglia che cambia lentamente e quasi i personaggi ne sono vittime più o meno inconsapevoli?
R.G.: In questo film volevo parlare di tutto ciò che mi ha fatto paura. Ci sono tanti personaggi che hanno in comune l’assenza di progetti di vita in nessun campo, ne psicologico, ne sessuale; non volevo puntare solo sull’aspetto sociale o politico, ma su quello sentimentale. Sono figure abbandonate a se stesse perché credo che sia il mondo in cui viviamo che fa si che ci siano delle persone prive di ogni progetto personale, che sono più indifese di altre, perché mancano al contrario progetti collettivi.
M.F.M.: Questa è una dichiarazione etica e politica molto importante. Spero che i lettori italiani capiscano questa definizione
R.G.: Essi non hanno progetti di vita nel senso completo della parola, cioè nessuno vede un futuro davanti a sé e quindi è una polifonia che comunque punta su progetti mancati. Quindi il termine “polifonia urbana” che tu hai usato mi piace molto. Solo il professore di musica cerca attraverso la musica, di migliorare le cose intorno a sé, anche se lui stesso non ha progetti.
M.F.M.: Per esempio, il taxista è un personaggio molto interessante. Ha una famiglia, ma in realtà è scollegato psicologicamente e dialetticamente dal padre comunista, anarcoide. E’ una famiglia di perdenti, lui è scollegato dagli altri due famigliari, tutti portano i segni di una sconfitta. Proprio per questo il film è molto poetico, perché c’è questo senso della sconfitta che viene fuori in modo non retorico, non forzato. C’è un grande equilibrio delle parti.
Inoltre mi è piaciuto molto il personaggio del barista, ex amante della protagonista. Un personaggio misterioso.
R.G.: Pensando a questo personaggio possiamo parlare delle differenze con Ken Loach. Lui è l’angelo della morte. E’ sia allegorico che reale, è un punto di collegamento tra i vari protagonisti. Ken Loach, per esempio, non crea personaggi di questo tipo.
M.F.M.: Credo che solo nella parte finale ci rendiamo conto che ci troviamo di fronte ad un personaggio allegorico. Cosa lo spinge a sparare, a diventare un cecchino, un giustiziere, un angelo della morte-giustiziere?
R.G.: E’ un assassino che sceglie la gente che uccide. E’ un giudice, sceglie chi uccidere, ma comunque è un personaggio che si fa pagare e quindi “opaco”. Non ho voluto fare completamente luce su questo personaggio e l’ho lasciato in parte nel mistero. Non è un errore di sceneggiatura, è una scelta.
M.F.M.: Parliamo di A l’attaque. In Italia è stato accolto bene, anche se oggi nel nostro paese c’è una parte della critica che vuole fare i conti con l’ideologia e vuole assolutamente abbracciare la cultura dell’edonismo cinematografico.
R.G.: E’ una regressione totale.
M.F.M.: Come nasce il progetto di A l’attaque che rispetto agli altri tuoi film è molto diverso.
R.G.: Ho fatto il film insieme a La ville est tranquille, lo stesso anno con la stessa equipe, gli stessi attori. Volevo fare un film su come è il mondo e su come potrebbe essere. Il fatto che esistano personaggi che si mettono insieme per combattere una multinazionale e il villaggio intero si metta con loro è una rivoluzione, un sogno, il sogno della felicità, di una rivoluzione al potere, un sogno possibile. E’ un film sulla creazione. C’è una dialettica fra realtà e finzione, fra l’essere dentro la realtà ed esserne fuori e in qualche modo raccontarla.
M.F.M.: Quindi questo film è anche un modo di fare cinema politico, un modo di dire si può fare politica nel cinema inventando storie possibili?
R.G.: Si, fare un film politico è come fare un confronto fra ricchi e poveri. Voglio utilizzare delle forme popolari. A l’attaque è una sorta di contaminazione di forme stilistiche, di forme del passato.
M.F.M.: Si può fare cinema politico come lo hanno fatto un Ferreri, un Buñuel, un cinema politico basato sull’uso formale del contenuto oppure si può fare un cinema politico alla Ken Loach, alla Pontecorvo, alla Francesco Rosi, che sia dichiaratamente politico, retoricamente politico? Cioè un cinema politico deve nascere proprio come tale o la sua politicità deve scaturire da un certo uso del linguaggio?
R.G.: Il cinema militante è un cinema di propaganda. Il cinema politico si pone delle domande formali. Io credo che la politica nel cinema non sia necessariamente legata al contenuto credo, per esempio, che il modo di mostrare i corpi nudi, la sessualità, l’amore in Marie Jo e i suoi due amori sia un atto politico. Il film lavora sui corpi, sulla sessualità e penso che questo sia un atto politico forte perché il modo di mostrare, di filmare i corpi e il modo di mostrare i rapporti sentimentali è un modo molto diverso dalla cinematografia internazionale oggi.
Mostrare i corpi nudi come corpi innocenti è una cosa che non esiste nel cinema, è oggi un atto quasi rivoluzionario in cui la televisione, la pubblicità ha ridotto i corpi a merce, un modo per vendere delle cose. Questo è un modo di fare politica, anche se non si penserebbe mai ad essa mostrando dei corpi nudi. L’erotismo è innocente.
M.F.M.: E l’erotismo di un film come L’impero dei sensi di Oshima?
R.G.: Non c’è molto erotismo in quel film. Ci può essere erotismo senza amore. E’ un film che mi piace molto, ma per me non è un film erotico, perché un film erotico è solo l’atto della vita. Decameron è un film erotico, dissociato dalla morte. Nemmeno Ultimo tango a Parigi. Questa è una definizione pasoliniana. La sessualità riportata alla sua dimensione primitiva, alla sua innocenza.
M.F.M.: E quando Pasolini si accorge che il mercato utilizza la Trilogia della vita per trasformare in cloni i suoi personaggi gira Salò e abiura la trilogia!
R.G. Apprezzo moltissimo quel film dove l’erotismo è un fantasma, un insieme di gesti rituali.
M.F.M.: Quale è stata la tua reazione di uomo di sinistra e di cineasta di fronte ai fatti di Genova?
R.G.: Ciò che era strano per noi è che comunque in Europa tutto questo potesse ancora succedere. E’ come se riscoprissimo la destra e una sinistra inesistente. La destra anche in Francia si sta risvegliando in tutti i campi. Questo è secondo me un fattore europeo. Tra la sinistra che prima governava la Francia, che a me non piaceva particolarmente, e la destra che da un anno governa c’è una differenza enorme.
M.F.M.: Quale è la spinta fondamentale che caratterizza l’ascesa in Europa e nel mondo del Movimento No Global. Cosa fa di questo movimento qualcosa di realmente nuovo sulla scena politica, di realmente diverso dalla stessa struttura dei partiti?
R.G.: Il fatto più importante di questo movimento è l’internazionalità. Bisognerà comunque trovare delle tradizioni politiche, capire come la forza teorica del movimento può trasformarsi in proposta politica, reale. Non può essere una cosa costituzionale, deve essere una cosa che succede in ogni paese, che si trasformi in politica. E’ necessario che il movimento prima o poi si trasformi in qualcosa di simile a un partito altrimenti si spegnerà. So che non tutti sono d’accordo, ma comunque deve diventare un gruppo che fa pressione, quasi una lobby in senso positivo.