VENEZUELA: UN’ESTETICA DELL’ISOLAMENTO-INTERVISTA A LUIS ARMANDO ROCHE
CINECRITICA n. 28 (ottobre-dicembre 2002)
VENEZUELA: UN’ESTETICA DELL’ISOLAMENTO
El cine es la tragedia contemporánea, es nuestro gran oráculo colectivo.
Julio Hernandez
Penisola di Araya, 24 luglio
E’ in questo splendido paesaggio di desolazione formato dal trinomio mare, terra e sale, a venti miglia dalla costa di Cumaná, città coloniale di antica fondazione nel nord est del paese, che la regista venezuelana Margot Benacerraf [1] girò nel 1959 quello che ancor oggi è ritenuto il capolavoro della cinematografia di questo paese. Vincitore di molti premi internazionali tra cui quello della fotografia a Cannes, Araya tuttavia non riuscì ad aprire un varco nel tentativo di avviare in Europa la scoperta di una cinematografia interessante, a torto sconosciuta, come del resto lo stesso paese di cui è preziosa testimonianza. Con un linguaggio filmico sospeso tra il poetico e l’antropologico, il film descrive senza alcuna intenzione narrativa, ossia nel più rigoroso stile documentaristico, la vita quotidiana e la fatica degli abitanti di Araya divisi tra i salineros e pescadores. L’esistenza nel villaggio di povere case esposte ai venti e ad un sole implacabile è un breve intermezzo tra il tempo della Salina Madre, impiegato nella raccolta del sale, e quello del Mare aperto dove la pesca è la sola attività di sostentamento.
Il film della Benacerraf è una sorta di poema umano che possiede il ritmo interiore del “trabajador” la cui massima rappresentazione di forza è simboleggiata dalla “piramide di sale” che è testimonianza vivente di un’opera collettiva compiuta. Il film si chiude con l’interrogativo epocale secondo il quale la modernità (rappresentata dalla nuova salina che ora forma una quinta insostituibile del paesaggio di Araya) potrà forse sostituire la tradizionale opera dell’uomo.
Se è evidente l’analogia coi pescatori di Acitrezza e con quelli delle sperdute Isole Aran, il film supera stilisticamente il semplice tributo all’opera di Luchino Visconti (La terra trema) e di Robert Flaherty (L’uomo di Aran) laddove l’assimilazione di entrambi i riferimenti giunge a compimento attraverso un linguaggio autonomo di un poetico e scabro realismo, ma di una classica purezza; rifiutando ogni compromesso con il “racconto” e con l’estetica verista, filma uomini che non recitano, ma semplicemente vivono.
Proiettato a Caracas con un ritardo di ben tredici anni (1972), non fu mai un modello per le nuove generazioni di cineasti che da parte loro intrapresero strade diverse, che poi è il destino di questa cinematografia: non avere linee guida, modelli, correnti stilistiche, ma alcune costanti tematiche (su cui prevalgono il melodramma e la violenza urbana) e una spiccata propensione al documentario come forma creativa autonoma, svincolata dagli interessi del mercato. Un cinema, dunque, impuro, che affida la propria espressività alla mescolanza di generi e di umori diversi, rispondenti ad un unico afflato culturale nazionale.
Nell’ampia opera di Román Chalbaud (nato a Merida, capoluogo della regione andina) che ha al suo attivo 19 lungometraggi, tra i quali almeno quattro film fondamentali, Cain adolescente (Caino adolescente-1959), El pez che fuma (Il pesce che fuma-1977), Pandemónium, la capital del infierno (Pandemonio, la capitale dell’inferno-1997) e la La oveja negra (La pecora nera-1987), si riflettono gli elementi fondamentali su cui si fonda la poetica di questo importante autore.
Scrive Alfonso Molina [2] che: <<Il cinema di Chalbaud è indiscutibilmente vincolato al divenire politico, sociale, culturale della seconda metà del secolo ventesimo in Venezuela. In particolare, con il periodo che comincia alla fine degli anni cinquanta e si estende fino ai tempi attuali. A un estremo, gli albori della democrazia. Nell’altro, i rantoli di uno sviluppo politico, economico e sociale che, dopo quattro decenni di speranze e frustrazioni, apre la strada ad una differente concezione di governo e a un nuovo modello di stato i cui segni e destini alimentano ogni volta di più la discussione. Questa corrispondenza entra nella sua opera creativa e il processo democratico non conserva una relazione cronologica diretta, e neppure una confessata intenzionalità, ma un nesso spiccatamente espressivo.>>
Il suo cinema inoltre trae ispirazione dai bassifondi della capitale ponendosi nel difficile ruolo di interprete del mutare delle condizioni di vita urbana innestando il dramma delle passioni individuali nei conflitti sociali che sono il prodotto di trasformazioni economiche. Se Cain adolescente tradisce la sua origine teatrale e si configura come un’opera di transizione, con schema narrativo chiuso, nelle successive invece il regista inaugura una forma decisamente più “aperta” di docu-drama-sociale, spazio ideale di rappresentazione dell’anima di un popolo. La oveja negra, sua “opera capitale” e El pez que fuma formano per così dire un dittico sul tema degli emarginati, dei ladri e delle prostitute. Ma se nel primo è un occhio antropologico a prevalere, nell’altro è uno sguardo più benevolo e “ravvicinato”, un universo chiuso che mescola religiosità cattolica e violenza con forti accenti simbolici di buñueliana memoria. Girato all’interno di un cinema abbandonato cui non mancano riferimenti cinefili come la locandina di Roma città aperta, La oveja negra vanta una delle più belle sequenze d’apertura del cinema venezuelano: in un magnifico equilibrio geometrico visivo sfila, in un’arcaica processione nella città notturna, la comune di ladri come in una cerimonia religiosa. E’ l’inizio strabiliante di un film dove la provocazione diviene normalità in un mondo, quello rappresentato da Chalbaud, dai valori rovesciati, barbarico e metropolitano al tempo stesso, sacrilego e religioso.
Altri autori sono cresciuti negli ultimi trent’anni inserendosi nel complesso e contraddittorio percorso della modernità con un occhio attento alla realtà sociale del paese, coniugando destini individuali e collettivi in un rapporto costante tra mondo rurale e mondo urbano.
Alla tradizione del documentario [3] appartengono, seppure non in modo esclusivo, autori come Luis Armando Roche, Joaquim Cortés (El domador y otras parajes-Il domatore e altri luoghi-1973/1982 film sulla vita quotidiana degli allevatori della pianura venezuelana), Rafael Marziano Tinoco (El caminos de las hormigas-Il cammino delle formiche-1993 che ritrae la vita caotica della capitale partendo da un ingorgo autostradale), Carlos Oteyza, autore di un documentario di montaggio sull’evoluzione storica di Caracas, John Dickinson (Habitantes de la tierra de Gracia-Abitanti della terra di Gracia-1983/1985), tutte opere in cui la dimensione del cortometraggio conferma l’importanza del ruolo della non-fiction nell’evoluzione creativa di questa cinematografia.
Quando, in occasione del Quarto Festival del Cinema di Merida, fu chiesto al regista Costa-Gavras, durante le proiezioni, un giudizio sul cinema venezuelano il regista rispose di aver provato la sensazione di trovarsi di fronte al primo film, ossia di non riuscire a ritrovare tra un film e l’altro una qualche continuità stilistica, un’estetica individuabile o infine una costante tematica. Niente. Nessuna scuola, nessun manifesto per una cinematografia che si scopre e si approfondisce attraverso l’evoluzione della materia narrativa più che del linguaggio filmico. In altre parole è la materia a suggerire il linguaggio e non il contrario.
Opere come ad esempio La casa de agua (La casa dell’acqua-1984) di Jacobo Penzo, Quando quiero llorar no lloro (Quando desidero piangere non piango-1973) di Mauricio Wallerstein, Diles che non me maten (Di loro che non mi uccidano-1984) di Freddy Syso (libero adattamento del romanzo messicano Pedro Paramo di Juan Rulfo), Ifigenia (idem-1987) di Ivan Feo, Roraima (Roraima-1999) di Carlos Oteyza, non appartengono di fatto ad alcun genere cinematografico testimoniando la vitalità di un cinema d’autore che, appunto senza proclami, rivela una singolare autonomia rispetto ai generi cinematografici codificati ed un’attenzione, sia pure eclettica, ai temi suggeriti dalla realtà, sia essa storica o contemporanea.
In particolare il primo, diretto da un regista che è stato presidente della Cinemateca Nacional, autore di poche ma interessanti opere, narra con accenti poetici e visionari, a tratti un po’ confusi, ma tuttavia di forte espressività, il complesso itinerario della vocazione rivoluzionaria di un poeta che all’epoca del crudele dittatore Juan Vicente Gomez, prova su se stesso la solitudine e l’orrore della prigionia, della tortura (la casa dell’acqua, appunto) e infine della morte.
Una cinematografia, infine, che non gode di solide strutture produttive, che sembra essere equidistante dalle altre correnti cinematografiche e culturali latinoamericane (Nuovo Cinema Cubano, argentino, brasiliano), tende dunque a coltivare una sorta di autoctonia il cui prezzo è certamente l’isolamento internazionale (critico e ancorchè distributivo) nonostante vi siano film e autori degni d’attenzione e, come si è visto, in particolar modo emerga, l’opera vasta e complessa di un cineasta di assoluto rilievo come Romain Chalbaud, conosciuto all’estero soltanto dai frequentatori dei Festivals (a San Sebastian nel 1985 è stata compilata una rassegna sulla sua opera), ma ingiustamente sconosciuto nel nostro paese.
[1] Nata a Caracas, fu tra i creatori del cinema venezuelano moderno, e ha fondato con Román Chalbaud, vero nume tutelare del cinema venezuelano e Luis Armando Roche la Cinemateca National. Sebbene non abbia più girato film dopo Araya (1959), (il progetto di realizzare un film dall’Erendira di García Márquez non andò in porto) ebbe tuttavia un ruolo significativo nelle istituzioni culturali cinematografiche della capitale.
[2] Alfonso Molina, Un melodramma inconcluso, in Cine, democracia y melodrama. El país di Román Chalbaud, Planeta, Caracas, 2001, pag. 32
[3] Esso viene spesso identificato con il cortometraggio che a partire dalla fine degli anni sessanta, viene assumendo un ruolo significativo nell’insieme della produzione filmica nazionale. In una cinematografia che ha precarietà produttiva nel proprio DNA, la misura del cortometraggio risolve con la forza dell’immediatezza l’urgenza espressiva di intervento sulla realtà, sia esso “politico” o più semplicemente documentario di una realtà specifica. In alcuni casi viene usato proprio come un'”arma politica” laddove la necessità del messaggio, o se si vuole, della comunicazione, si sostituisce a qualsivoglia urgenza estetica. Inoltre esso permette ai giovani autori di sperimentare nuove forme espressive.
UNA CRONOLOGIA DEL CINEMA VENEZUELANO
1941 Juan de la Calle-Juan de la Calle di Rafael Rivero
1952 Reverón-Reveron di Margot Benacerraf
1959 Araya-Araya di Margot Benacerraf
1959 Cain adolescente-Caino adolescente di Román Chalbaud
1965 Entra sabado y domingo-Tra sabato e domenica di Daniel Oropeza
1965-1972 Variaciones sobre el mismo espejo-Variazioni sul medesimo specchio di Luis Armando Roche
1973 Cuando no quiero llorar no lloro di Mauricio Wallerstein
1973-1980 El domador-Il domatore di Joaquín Cortès
1975 Cronica de un subversivo latinoamericano-Cronaca di un sovversivo latinoamericano di Mauricio Wallerstein
1976 Sagrado y obsceno-Sacro e osceno di Román Chalbaud
1976 Soy un delincuente-Sono un delinquente di Clemente de la Cerda
1977 El cine soy yo-Il cinema sono io di Luis Armando Roche
1977 El pez que fuma-Il pesce che fuma di Román Chalbaud
1978-1996 Relatos de tierra herida-Racconti dalla terra ferita di Carlos Azpúrua
1979 País portatil-Paese portatile di Ivan Feo e Antonio Llerardi
1983-1985 Abitantes de la Tierra de Gracia-Abitanti della Terra di Grazia di John Dickinson
1984 Dile che non me maten-Digli che non mi uccidano di Freddy Siso
1984 La casa de agua-La casa d’acqua di Jacobo Penzo
1985 Oriana-Oriana di Fina Torres
1986 Ifigenia-Ifigenia di Ivan Feo
1986 Reinaldo Soler-Reinaldo Soler di Rodolfo Restifo
1987 La oveja negra-La pecora nera di Román Chalbaud
1995 El camino de las hormigas-Il cammino delle formiche di Rafael Marziano
1995-1998 Los presagios de Moctezuma-I presagi di Montezuma di Paolo Gasparini
1996 Aire libre-Aria libera di Luis Armando Roche
1997 Guerrilleros al poder- Guerriglieri al potere di Miguel Curiel
2002 Yotama se va volando-Yotama se ne va volando di Luis Armando Roche
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LUIS ARMANDO ROCHE: “LA FORZA DELLA GENTE COMUNE”
La libertad es un fantasma
Luis Buñuel
Caracas 15 luglio 2002
Sulla terrazza dell’appartamento di Bello Monte, un quartiere residenziale di Caracas che si snoda su una ripida collina, incombe la presenza del Monte Avila, simbolo naturale della città con i suoi grattacieli.
In questa giornata calda e piovosa del Caribe ha inizio la conversazione con Luis Armando Roche, cineasta, autore teatrale tra i più conosciuti del Venezuela, che avrà seguito in un altro luogo, nella residenza isolata del regista, a Turgua, a cinquanta chilometri dalla capitale. Dunque la metropoli e la selva come simboli opposti e complementari, poli essenziali della cultura latinoamericana.
L’uomo Roche ha due amori per i quali compie minuziose e appassionate ricerche: Lewis Carroll (di cui possiede un’intera collezione di edizioni, anche rare, e molti oggetti ispirati all’opera) e Luis Buñuel (sulla cui opera ha scritto tre libri[1]); e una seconda patria, Parigi, dove ha studiato cinema, all’IDHEC, dove ha incontrato Marie François, studiosa d’arte che in seguito è diventata sua moglie e produttrice dei suoi film. Dal padre, grande costruttore edile e amante di cinema (autore di alcuni documentari) apprese fin da piccolo la passione per la settima arte. Il suo rapporto con l’Italia risale al tempo in cui, poco più che trentenne, fu assistente di Alessandro Blasetti per il film storico Simon Bolívar (1969), che il regista girò in Venezuela.
Secondo il regista caraqueño esiste in ciascun individuo un potenziale di desiderio e di fantasia che si manifesta nel gesto espressivo dell’arte popolare oppure nell’atto estremo quotidiano. Si tratta di una sorta di poetica che è possibile ritrovare nei suoi lungometraggi (in particolare nel primo), ma ancor più nei cortometraggi di cui è autore prolifico e specialmente nelle Variaciones sobre un mismo espejo (Variazioni sopra un medesimo specchio) che raccoglie cinque cortometraggi realizzati fra il 1965 e il 1972. L’occhio filmico di Roche, attento alle figure umane di artisti popolari e alle loro creazioni, quanto ai paesaggi naturali e agli uomini che ne fanno parte (come i trabajadores di diamanti della Guajana), mescolando come in El “Indio” Figueredo (L’indio Figueredo-1972) la dura vita degli llaneros, allevatori di bestiame, con quella di un suonatore d’arpa virtuoso, rivela in Merida no es un pueblo (Merida non è un villaggio-1972) una certa ispirazione surrealista nel coniugare l’idea suggerita dall’opera dell’artista plastico Manuel Merida con elementi e immagini di vita reale.
Nel recente documentario, Virtuosos-Virtuosi (1999), ad esempio, l’interesse per la musica popolare venezuelana (in particolare il repertorio quatristico, basato su un tipo di chitarra a quattro corde, proveniente dalla regione dello Llanos), analizzata con rigore e metodo, anche attraverso la testimonianza dei quattro musicisti, ormai tutti morti, coincide proprio con la valorizzazione della genialità del singolo, testimone tuttavia di una cultura collettiva urbana, ma non solo.
Ne El cine soy yo-Il cinema sono io (1976), suo primo lungometraggio da lui stesso definito <<como una piedra mal tollada>> la figura del protagonista, un proiezionista di cinema ambulante, riflette l’irruzione del desiderio, della diversità nella dimensione quotidiana. Questo personaggio estremo col suo camion bizzarro, dove è nascosto il mistero del cinema, che sarebbe piaciuto a Fellini, compie un lungo viaggio attraverso il Venezuela povero in nome del cinematografo. Anzi, è lui stesso il cinema, incarnazione di un mito popolare, lo “strumento” di libertà con cui egli può giungere al cuore della gente dispersa nel grande paese. Ma il suo desiderio di libertà è destinato a scontrarsi con la stupidità degli uomini. In questo road-movie, che per affinità tematica anticipa il wendersiano Nel corso del tempo e che tanto si affida all’improvvisazione e ad una sorta di realismo povero, ancora una volta buñuelianamente, la libertà si rivela un fantasma.
Con El secreto (Il segreto-1988) Roche realizza un perfetto b-movie, sia pur di taglio televisivo, sul tema hitchcockiano della doppia identità, concentrandosi ancora una volta sul tema del destino individuale.
Aire libre (1996), la sua opera più impegnativa (si tratta di una coproduzione franco-canadese-venezuelana), molto liberamente ispirata al diario di viaggio in Venezuela di Alexandr von Humboldt, insigne scienziato ed esploratore prussiano e dell’amico naturalista francese Aimé Bonpland, sul finire del secolo dei Lumi, è un ispirato omaggio all’amicizia virile, all’avventura fisica e intellettuale intesa come libera ricerca e scoperta dell’altro. Pur mostrando taluni squilibri narrativi creati da una certa sovrabbondanza tematica irrisolta, sorta di metavventura nei territori (in senso fisico e culturale) della fantasia e della perduta innocenza, il film riesce a mostrare tutta la bellezza naturale del tropico e la distanza dal mondo “civilizzato” creando un’illusione di libertà che tuttavia è negata dalla crudeltà dei colonizzatori. Ossessionato come Buñuel dall’idea stessa di libertà, Roche ne racconta, appunto, il fantasma nel lungo viaggio di due uomini, entrambi alla ricerca della bellezza. Dunque è facile comprendere come il rispetto filologico del testo di Humboldt sia un fatto del tutto secondario; il passaggio dal testo scritto alla sua visualizzazione ha tuttavia evidenziato un accumulo di elementi tematici (il ritratto della società coloniale dell’epoca, il viaggio nelle regione più selvagge del Venezuela, l’amore di Bonpland per una nobildonna, l’omosessualità di Humboldt, il problema degli indios e la repressione spagnola e inoltre la descrizione della passione botanica e zoologica dei due protagonisti) che tuttavia ne compromette il delicato equilibrio, ossia impedisce ad esempio un’ipotesi di “lettura critica” approfondita di un solo elemento chiave del grande ritratto storico-naturalistico-sociale-psicologico che fu del grande esploratore.
Con Bach in Zaraza (2000), mediometraggio assai singolare, Roche realizza una sorta di “fantasia musicale” (con tanto di brani cantati) su un’ipotesi bachiana che consiste nell’immaginare un episodio della vita del compositore; l’ipotesi nascerebbe da un frammento temporale sconosciuto nella biografia bachiana. Si immagina, dunque, che Bach, giunga giovanissimo a Zaraza, una cittadina dello Llanos venezuelano, dove sarà profondamente colpito dall’amore per una donna giovane e bella e da un suonatore di quatro, musico straordinario col quale egli farà un memorabile duetto. Nella fantasia ibrida voluta da Lui Armando Roche e da Diana Abreu si ritrovano i temi cari al regista come l’incontro fra culture diverse, l’amore per la musica, la genialità popolare e finanche una citazione al suo primo lungometraggio attraverso la presenza del protagonista del El cine soy yo che in questo caso cita affettuosamente il proprio personaggio.
In Yotama se va volando (Yotama se ne va volando-2002), suo quarto lungometraggio, la tipica struttura del dramma concentrazionario viene rovesciata in funzione di una rilettura drammatica del binomio amore-morte. Nella dinamica di un quartetto improvvisato, la figura di una giovane sedicente terrorista (che ha sequestrato due persone) perde i propri connotati “politici” partecipando ad una sfera intima (lo spazio esclusivo della casa), psicologica e affettiva spiazzante rispetto al cosiddetto jeu de massacre ideologico o più semplicemente violento, talvolta di crudeltà gratuita.
M.F.M.: Che cosa significa essere oggi un cineasta latinoamericano in un mercato completamente globalizzato?
ROCHE: Dal punto di vista espressivo è come in Europa, non ci sono problemi poichè l’opera nasce libera da ogni imposizione, ma dal punto di vista distributivo siamo totalmente in mano al consorzio nordamericano che controlla la distribuzione a livello mondiale. In Venezuela ci sono strutture di finanziamento che sono andate decadendo con il tempo e senza dubbio avevano delle capacità che nei tempi migliori era di dieci-dodici pellicole all’anno e ora di tre pellicole all’anno più o meno. Ma il gran problema esiste nel momento della distribuzione, quando cadiamo tutti nella rete internazionale che tiene il monopolio.
M.F.M.: Quali difficoltà incontrano i registi latinoamericani nell’essere distribuiti nei paesi europei. Perché alcuni autori arrivano con tutte le loro opere e altri invece faticano moltissimo ad essere conosciuti?
ROCHE: Io penso che l’egemonia della distribuzione nordamericana sia mondiale, quindi per un latinoamericano essere conosciuto in Europa quando lo stesso europeo non può essere mostrato nel suo stesso paese vuol dire che sarebbe necessaria una specie di distribuzione alternativa e parallela alla distribuzione nordamericana.
M.F.M.: Quali sono secondo la tua opinione gli autori più interessanti che oggi si possono vedere in America Latina?
ROCHE: Cominciando da noi stessi, ci conosciamo molto poco perché un venezuelano non vede i film colombiani, ne gli ecuadoriani, ne gli argentini, ne i venezuelana stessi. Questo sempre per il fatto che ultimata la pellicola incontriamo il trust della distribuzione e quindi succede la stessa cosa per gli altri film latinoamericani in Venezuela. In questo momento abbiamo a Caracas il primo festival di cinema iberoamericano. E’ una nuova prova per vedere se il pubblico (esiste un nuovo circuito di sale che si chiama Gran Cine, parallelo al solito che distribuisce pellicole iberoamericane, cinema italiano etc.) è interessato. E’ una nuova alternativa. Le ambasciate francesi e spagnole tentano, da parte loro, di far conoscere il loro cinema.
M.F.M.: Parlando del cinema italiano in America Latina, la sua conoscenza è più un fenomeno ristretto all’elité, cioè ristretto alle cineteche, oppure c’è una conoscenza di massa di questa cinematografia.
ROCHE: Il cinema italiano in questo momento è totalmente sconosciuto qui, solo le poche pellicole italiane distribuite da Miramax o le pellicole che eventualmente vincono un Oscar arrivano sui nostri schermi.
M.F.M.: Puoi nominare qualche titolo di film italiano che è stato distribuito negli ultimi tempi in Venezuela?
ROCHE: Gli ultimi film di Nanni Moretti, e La leggenda del pianista sull’oceano di Giuseppe Tornatore.
M.F.M.: E per ciò che riguarda il cosiddetto cinema italiano classico, quello che ci ha reso famosi nel mondo?
ROCHE: Solo attraverso la Cinemateca possiamo vedere questo vostro cinema. Ma ora la Cinemateca sta attraversando un momento di crisi economica, il governo non da finanziamenti e quindi questa istituzione sta diventando soprattutto distributrice. L’archivio esiste, ma la visione di pellicole classiche, come ad esempio i film di Rossellini e di De Sica, passa in secondo piano.
M.F.M.: Avete una tradizione di saggistica cinematografica, si scrivono libri sul cinema in Venezuela? Puoi farmi dei nomi?
ROCHE: Ci sono molte persone che scrivono su giornali e su riviste, ma non c’è critica di fondo, gente che analizza in maniera complessa l’opera di un autore Alfonso Molina [2], Rodolfo Izaguirre[3], e José Antonio Gonzales, sono le figure più autorevoli, ma in genere ci si limita a scrivere soprattutto recensioni.
Negli anni settanta esistevano riviste, come per esempio Cine al dia, molto interessante e combattiva, che parlava soprattutto del cinema povero (Glauber Rocha, Nelson Pereira dos Santos. Ma durò poco tempo.
M.F.M.: Ma questi autori oggi sono ricordati?
ROCHE: I loro film non si possono vedere perché non c’è distribuzione e sono presenti solo presso la Cinemateca. Non esiste una mostra sistematica del cinema latinoamericano. Oggi è la prima volta che questo paese ospita un festival organico del cinema latinoamericano.
M.F.M.: In Italia abbiamo una visione molto frammentaria del cinema latinoamericano; abbiamo alcuni studi storici che ci hanno introdotto, diversi decenni fa, al cinema novo brasiliano, all’avanguardia del cinema cubano. Abbiamo coltivato questo cinema, negli anni sessanta, sulla scorta di uno spirito terzomondista collegato ad una certa avanguardia politica. Oggi, mentre questo spirito terzomondista è praticamente scomparso in Europa, il cinema latinoamericano è visto come prodotto di un mercato internazionale frammentario con alcuni autori, alcune opere verso le quali esiste un particolare interesse. Per esempio in Venezuela conoscete i film del regista argentino Marco Bechis?
ROCHE: Abbiamo visto cinema argentino perché c’è stata una rassegna di due settimane su questa cinematografia. Non è che il pubblico sia più interessato al cinema nordamericano, è che esiste solo quello. Speriamo infatti che con questo nuovo circuito, che per comodità chiamiamo alternativo, gli spettatori mostreranno qualche interesse verso queste nuove proposte. Se il film è distribuito da Miramax o se la Cinemateca, come per esempio per La cienaga, compra una copia del film e poi la distribuisce, allora possiamo conoscere questi film, ma naturalmente esso arriverà solo in una sala.
M.F.M.: Passando a parlare specificatamente del cinema venezuelano, come nasce, come si sviluppa questa cinematografia.
ROCHE: Dobbiamo tornare indietro di parecchi anni, più o meno all’inizio del secolo. Qui il cinema iniziò a Maracaibo, poi a Valencia e a Caracas con piccole pellicole, ma mai si fece cinema come in Messico e Argentina, le più potenti cinematografie latinoamericane. Il Venezuela ebbe sempre un mercato molto piccolo perché lo stesso mercato era ed è molto piccolo, quindi non ci furono molte pellicole emblematiche come Araya di Margot Benacerraf, che fu un film che veramente segnò un’epoca; la nostra immagine fu riconosciuta e accettata negli altri paesi e a partire da questo film, esso segnò un’epoca. Poco dopo l’uscita di Araya iniziò il lavoro di un cineasta molto interessante, Roman Chalbaud e poi tutto un cinema degli anni settanta con moltissime pellicole all’anno. In Venezuela il distributore era anche il proprietario della sala e quindi ogni distributore distribuiva i film nelle sue sale e non aveva nessun interesse che si sviluppasse un cinema venezuelano. Una pellicola nordamericana copriva tutto il mercato mentre il povero produttore venezuelano arrivava con una pellicola e la metteva nell’ultimo cinemetto e non aveva distribuzione. Una situazione caotica.
M.F.M.: A proposito dell’estetica cinematografica, ci sono delle costanti stilistiche nel cinema venezuelano; la lezione del nuovo cinema cubano degli anni sessanta e del cinema brasiliano hanno avuto una qualche influenza sul cinema venezuelano.
ROCHE: Io credo di si. Qui si sviluppò soprattutto un cinema urbano; ci sono moltissime pellicole degli anni settanta ambientate in città e abbiamo anche pellicole che si occupano della guerriglia. Io penso che questo succedeva in parte per questioni di finanziamento economico, perché era molto costoso girare lontano da centri urbani. Io credo che tutte le cinematografie provenienti dall’America Latina abbiano metodi similari.
M.F.M.: Secondo te il cinema venezuelano è più un cinema di tradizione, legato al localismo, oppure è un cinema universale.
ROCHE: Abbiamo, per esempio, film tratti da romanzi, ma la maggior parte delle pellicole curiosamente, ha sceneggiature scritte appositamente per il cinema; abbiamo quindi pochi adattamenti, e sono tematiche venezuelane, ma non folkloriche. Per un certo periodo abbiamo avuto anche un cinema “miserabilistico”, ma è un tema che oggi ha stancato.
M.F.M.: In questi ultimi anni c’è una particolare attenzione alla produzione di cortometraggi che in Europa partecipano sovente a festival. Mi sembra che in Venezuela ci sia una particolare propensione, e non solo da parte tua, a coltivare la passione del cortometraggio. Ci puoi spiegare le ragioni.
ROCHE: I giovani mi dicono: tu sei vecchio, perché fai dei corti? A me piace molto il corto. Io credo che il corto in Venezuela sia di vitale importanza perché noi non abbiamo una scuola di cinema e quindi la scuola di cinema è fatta dai cortometraggi. Il finanziamento del cortometraggio è un’iniziazione al cinema. Spesso i giovani che fanno dei corti si riuniscono con alcuni veterani della fotografia, del montaggio, degli attori e il risultato generalmente è molto buono. Io credo che i corti che si fanno negli ultimi anni in Venezuela sono di prima categoria. Non sono cosa succede negli altri paesi latinoamericani, forse questa è una caratteristica soprattutto del Venezuela. Io credo che per la nostra anarchia questo metodo diventa creativo e funziona. Abbiamo poi una legge che obbliga a far visionare i cortometraggi prodotti. Nessuno compra i cortometraggi però possono essere largamente visti.
Il problema è questo: ti danno il denaro, fai la pellicola, ipotechi (più o meno) la tua casa, vendi la macchina, fai un film e poi non lo puoi mostrare e quindi è uno “spaventapasseri”: i giovani fanno i loro cortometraggi pensando che funzionerà anche non sanno come.
M.F.M.: Come dire che fare cortometraggi oggi può essere un lusso, un piacere del cinema per il cinema, non c’è una funzione commerciale. Quindi c’è anche più libertà.
ROCHE: Certamente. La grande intelligenza nostra è non aver capito che si poteva controllare questo. E’ magnifico, abbiamo una gran libertà nel soggetto, nel tema, e quindi escono cose veramente sorprendenti. Questo succede per una eccellente mancanza di organizzazione.
Per citare ad esempio una cinematografia europea il cinema spagnolo è unico perché il pubblico desidera vedere cinema spagnolo e quindi ci sono molti distributori che ora distribuiscono film spagnoli. In Venezuela il pubblico dice che, prima di tutto, non va a vedere i film venezuelani, secondo dice che sono cattivi, terzo che i film venezuelani sono tutti volgari, però vanno a vedere film nordamericani dove dicono tutto il tempo fuck, fuck, fuck, e queste parole non sono tradotte e quindi non sanno che sono volgarità, perché il venezuelano quando parla è di una volgarità incredibile.
In realtà abbiamo una grande quantità di pellicole per bambini, per esempio Los niños invisibles che sembra molto buona. E con questo nuovo circuito di ” Gran Cine” e il Festival di Cinema Iberomaericano, se il pubblico sarà numeroso, questo implicherà la produzione di nuove pellicole.
Tu sai che nel mondo intero la televisione aiuta il finanziamento di film. In Europa non c’è film che non abbia una o due televisioni che finanziano. Nessuna delle televisioni venezuelane finanzia pellicole cinematografiche. Questa è una brutta situazione. Distribuiscono solo a prezzi molti bassi e quando la diffondono hanno sempre buoni risultati. I venezuelani vedono il loro cinema soprattutto in televisione, quindi vuol dire che gli argomenti del cinema venezuelano a loro interessano.
M.F.M.: Come nasce Luis Armando Roche cineasta.
ROCHE: Io vengo da una famiglia con un padre molto legato al cinema. A mio padre piaceva molto il cinema e girò pellicole su Caracas che lui amava molto, e sui viaggi. Tra queste una su Venezia che vinse a Cannes il premio per Amateur negli anni cinquanta. Io lavorai molto con la fotografia, fui editore di una rivista negli Stati Uniti e da qui continuai in Europa, nell’Istituto di Cinema francese, l’Idhec, e da lì passai tutta la mia vita facendo cinema e teatro. E’ quindi un legame che nasce da mio padre.
M.F.M.: Il tuo primo lungometraggio, che si chiama emblematicamente El cine soy yo, che è un bellissimo titolo, come è nato? Come è stato possibile materialmente realizzarlo.
ROCHE: Siamo negli anni 70 e cominciavano i finanziamenti da parte del governo di pellicole e questa fu finanziata da Foncine e fu la prima coproduzione con la Francia. E Aire libre, molto anni dopo fu la prima pellicola coprodotta con il Canada.
M.F.M.: Credo che i due film siano molto lontani nel tempo, anche dal punto di vista estetico, ma credo anche che il peso della coproduzione sia molto più presente in Aire libre che nel primo.
ROCHE: Si, è vero perché in Aire libre, che è costato circa due milioni di dollari, ci fu una coproduzione molto più “moderna”, la coproduzione canadese è stata presente durante le riprese, ma ne El cine soy yo la coproduzione non era qui. Ma in Francia, dopo le riprese, la pellicola fu tagliata e rimontata nella prima parte, cosa che va contro la legge francese che dice che il direttore è l’autore della pellicola, dunque difensore di un diritto acquisito.
M.F.M.: El cine soy yo era un film a basso costo?
ROCHE: Si, ma con una grande forza.
M.F.M.: Quando hai cominciato a fare cinema quali autori ti hanno ispirato?
ROCHE: Una delle mie influenze primarie fu Lindsay Anderson e un suo documentario. Egli diceva che considerava assurdo che in tutte le pellicole gli eroi fossero gente molto ricca e la gente del popolo era sempre cattiva. Quindi lui ha usato eroi del popolo, come, per esempio, un giocatore di rugby. E così io decisi di utilizzare per i miei film pittori straordinari, musicisti straordinari che venivano dal popolo, presi dalla gente comune, ma geniali. Quindi tutti i miei cortometraggi e il mio primo lungometraggio parlano di persone venute dal popolo, ma dalle qualità eccezionali.
M.F.M.: A proposito di questo vorrei ricordare i tuoi cortometraggi che parlano appunto di personaggi del popolo. Tu hai ricercato la creatività naturale non nella borghesia, ma nel mondo popolare.
ROCHE: Si, esatto, cercando nel mondo popolare gli esseri eccezionali. Voglio dimostrare che qui il popolare è più eccezionale che il borghese. Il borghese è una merda.
M.F.M.: Potresti fare un esempio?
ROCHE: Nel 1963 feci il mio cortometraggio Raymond Isidore et sa maison (Raymond Isidore e la sua casa). Egli è un interratore che raccoglie pezzi di vetro e riesce a fabbricare una casa. E’ un tipo assolutamente comune che per amore, altro tema che ritorna sempre nelle mie pellicole, l’amore “loco”, tema tipicamente surrealista, fa questo.
M.F.M.: Quindi in questi cortometraggi si può cogliere un punto di vista personale sulla realtà.
ROCHE: Si, sopra questi personaggi eccezionali, ma comuni. Per esempio, mi interessavano i cercatori di diamanti nell’Orinoco in un altro mio cortometraggio. Il personaggio de El cine soy yo è tipicamente mio: viene dal popolo ed è un tipo straordinario con una grande inventiva e dice <<vado a portare il cinema in Amazzonia>>.
M.F.M.: Si può dire allora che dal punto di vista etico e stilistico tu abbia subito l’influenza del free cinema anni sessanta.
ROCHE: Solo Lindsay Anderson perché mi diede l’idea di creare “eroi del comune”. Anche in Aire libre c’è la medesima situazione: troviamo un nobile, Humboldt, e un uomo della piccola borghesia, Bonpland e un maestro di scuola, che è il mio eroe, il venezuelano del popolo.
M.F.M.: Quindi il tuo primo lungometraggio è stato girato in piena libertà improvvisativa.
ROCHE: Io tento di fare tutto le mie pellicole in piena libertà e improvvisazione. In genere stabilisco la sceneggiatura come una guida per fare un film. Mi ricordo cosa mi disse Rossellini molti anni fa qui in Venezuela, <<sceneggiatura non è mai…>>. Ho un bellissimo aneddoto su di lui: durante le riprese di San Francesco d’Assisi i protagonisti giravano continuamente fino a cadere ed esattamente dal punto in cui cadevano cominciavano a seguire il loro destino. Questo non era scritto nella sceneggiatura, era improvvisato.
El cine soy yo ha molti piani di lettura: questo personaggio che è il “signore” delle pellicole, che viaggio con il suo apparato. A volte il tono, l’argomento delle pellicole che mostra concordano con quello che succede nel film, cioè molte delle cose che proietta hanno a che vedere con la vita reale che trascorre nel film. C’è anche un po’ di metalinguismo. Quando poi il personaggio dice “il cinema sono io”, che è una frase prepotente, egli è totalmente disperato, un grido di disperazione.
M.F.M.: Parliamo dell’ultimo film, Yotama se va volando.
ROCHE: Mi sembra un film molto interessante. Ne El cine soy yo mi stimolava molto la parte attoriale, in quest’ultima pellicola utilizzo un luogo chiuso dove ci sono cinque personaggi che si evolvono in questo stesso ambiente: si produce una catarsi tipo sindrome di Stoccolma (da nemici diventano amici) e c’è l’introduzione di una bambina, che è il pensiero del futuro e l’addio al passato (con lo stesso attore de El cine soy yo) con un uomo che registra la propria morte. Un film totalmente personale.
M.F.M.: Non abbiamo parlato della tua esperienza con Blasetti che penso possa interessare il pubblico italiano.
ROCHE: Io ricordo poche cose. Per esempio che Blasetti teneva i pantaloni come i giocatori di golf e un sombrero dicendo, io ero un piccolo assistente di merda, <<quel cannone (che era sull’altra montagna) un metro a destra>> io, a cavallo andavo a spostare il cannone e quando tornavo diceva <<no, quel cannone, cinquanta centimetri alla sinistra>>. Un’altra cosa che ricordo, sempre durante le riprese di Simon Bolívar, e che le comparse venezuelane non volevano interpretare la parte dei soldati dell’esercito spagnolo.
M.F.M.: Parliamo della tua passione per Luis Buñuel che è diventata anche oggetto di studio. Come nasce questo amore.
ROCHE: Credo che l’atmosfera parigina mi influenzò molto quando studiavo lì. Ero attratto dai surrealisti, ho conosciuto André Breton, Jorge Camacho, Roberto Mata, e quindi mi avvicinai molto al loro spirito Credo che noi in America Latina viviamo in una specie di capsula del tempo bunueliana o surrealista perché qui tutto è possibile, basta uscire per strada e vedere le cose più strane, piene di collage, cose meravigliose e inattese. Inoltre l’amore folle che è sempre stata una costante dei miei film.
Buñuel mi aveva sempre interessato, ma fu quando mi invitarono a fare dei corsi di cinema nell’università di Dartmouth negli Stati Uniti che scrissi un saggio su Buñuel. Dovetti leggere tutto, vedere tutto e da questo uscì un libro. Lo riscoprii grazie a questo corso.
M.F.M.: L’influenza di Buñuel è rimasta molto forte in Messico, dove ha molto vissuto, o l’influenza buñueliana ha condizionato tutto il cinema latinoamericano.
ROCHE: Credo che la cosa più importante di Buñuel sia la sua morale. Buñuel è un uomo eminentemente morale, è la cosa più importante nella sua opera. Nel film di Saura su Buñuel questo si vede molto bene. E’ un film triste perché si vede che Saura pensa alla morte che si avvicina, ma molto bello.
M.F.M.: Vorrei ora parlare di Aire libre, il tuo progetto più ambizioso e costoso.
ROCHE: Noi tutti venezuelani abbiamo un’autostima molto bassa. Mi sembrava in un certo senso un’idea da humor nero far venire un personaggio dall’Europa per mostrare a noi le cose meravigliose che ci sono nel nostro paese perché noi stessi non vediamo quello che abbiamo. Aire libre nasce dall’idea di mostrare questo. In quasi tutte le mie pellicole io faccio del collage, per esempio in Bach in Zaraza, unisco la musica del barocco con la musica dello llanos venezuelano presupponendo che Bach fosse stato influenzato dai venezuelani e i venezuelani da lui. E’ una specie di “sogno surrealista”. In Aire libre ci sono molti punti in cui sono troviamo l’uso del collage, per esempio nella sequenza d’amore tra Bonpland e la donna. Prima la scena è molto forte, poi si sente fuoricampo qualcuno che grida. Le grida sono quindi fuori dalla scena erotica e infine la scena diventa molto dolce e nel momento di massimo piacere Bonpland vede Humboldt e grida il suo nome.
La produzione di tre paesi non ha condizionato la mia libertà. Io sapevo che il contratto come regista in Francia implica che tu hai l’ultima parola su tutto e quindi la produzione non ha potuto condizionare nessuna delle mie scelte.
M.F.M.: Perché il titolo Aire libre?
ROCHE: Originariamente la pellicola si chiamava Pasaje de hombres libres. Seguendo un’influenza buñueliana, il titolo è nato da un azzardo: <<L’aria è libera. Cos’è l’aria. Niente, ma è libera. La libertà è un fantasma. Aire libre.>>
M.F.M.: Aire libre è un film sul destino dell’America Latina o è un film intimo sul destino di due personaggi?
ROCHE: Io credo che sia una pellicola sull’amicizia, devo citare innanzitutto Jacques Espagne che è coautore con me della sceneggiatura che è un grande amico mio (ci paragoniamo a Bonpland e Humbold), un gran erudito e umanista, e senza di lui questa pellicola non avrebbe avuto la dimensione umana necessaria.
M.F.M.: Mi sembra che la figura di Bonpland sia più interessante di quella di Humboldt.
ROCHE: Bonpland è un personaggio più vicino a quello che mi interessa. Ammiro molto Humboldt per le sue capacità, ma Bonpland è un uomo d’azione, mentre l’altro era chiuso nella sua educazione prussiana.
M.F.M.: Humboldt era un represso che non conosceva il sesso, e la parte che più mi ha appassionato è sicuramente l’ultima, quella incentrata sul viaggio dei due uomini nelle regioni selvagge del paese, in cui entra in gioco il tema della civilizzazione e di come Bonpland diventa esso stesso selvaggio, sia pur per ragioni pratiche, e nella conclusione mi sembra che si ci sia un pizzico di malinconia, malinconia del tropico.
ROCHE: Quello che succede, come diceva Buñuel, è il caso di Simon del deserto, in cui il regista interruppe le riprese del film quando finirono le scorte alimentari per la troupe (il film dura solo 50 minuti). La stessa cosa è successa ad Aire libre.
M.F.M.: Parliamo della musica nel cinema di Luis Armando Roche.
ROCHE: La musica mi ha sempre appassionato. L’esempio più significativo è il mio documentario Virtuosos a cui ho lavorato per trent’anni. Infatti quasi tutti i protagonisti sono morti. Il film è una memoria della musica che per me è importantissima.
M.F.M.: Parlando di musica non si può fare a meno di citare nuovamente Bach in Zaraza che è un doppio omaggio al genio popolare venezuelano e a quello di Johann Sebastian Bach.
ROCHE: Certamente, è un lavoro a cui tengo moltissimo. Il tema mi ha contagiato fin dall’inizio e ha contagiato anche tutti gli altri collaboratori.
M.F.M.: Al di là di qualsiasi giudizio sul film, una cosa è certa: esso sta a dimostrare che ancora può esistere un cinema senza finalità commerciali, come puro atto gratuito, proprio come nei sogni.
LUIS ARMANDO ROCHE
Membro fondatore della Cinemateca Nacional con Margot Benacerraf
Premio Nacional del Cine – 1999
Opere di Luis Armando Roche
Corti e mediometraggi
1965 Raymond Isidore Et Sa Maison (c.m. doc. 16, col.)
1967 La Fiesta de la Virgen de la Candelaria (c.m. doc. 16 B & N)
1967 Los Locos de San Miguel (co-realizzatore Miguel San Andrés) (c.m. doc. 16 col)
1968 Victor Millán (c.m. doc., 16, col.)
1968 Los Tambores de San Juan (c.m. doc. 16, col.)
1968 Tamunangue (c.m., direttore di fotografia 16mm, col. – direttore Angel Hurtado)
1969 La Bulla del Diamante (co-realizzatore Jean Jacques Bichier) ( c.m., doc. 16, col.)
1971 Carlos Cruz-Diez (m.m., doc.16,col.)
1972 El indio Figueredo (co-realizzatore Gustavo Chami) (c.m., doc., 35, col.)
1972 Minas y Metalurgía (c.m., doc., 35, col.)
1974 Una Singular Posta Científica (c.m., doc. 16, col.)
1975 Como Islas en el Tiempo (m.m., doc. 16, col.)
Merida No Es un Pueblo(c.m. doc., 35, col)
Doce horas (c.m., doc. 35, col.)
1997 La Controversia de Valladolid. Video dell’opera teatrale di Jean Claude Carrière/Antonio Diaz-Florian, versione con il Teatro Itinerante de Venezuela. 1997
1999 Virtuosos (55 m.m., documentario, video/16, col.)
2000/2001 Bach en Zaraza mm. fiction, 35mm, col.)
Lungometraggi
1977 El Cine Soy Yo – Il cinema sono io (Venezuela-Francia) (lm. 35, col)
1988 El Secreto – Il segreto (lm. 35, col.)
1996 Aire Libre – Aria libera (Venezuela-Francia-Canada) (l.m. 35, col).
2002 Yotama se va volando – Yotama se ne va volando (Venezuela-Francia, lm. 35, col.)
Teatro
– “La Novicia y la Virtud” traduzione e adattamento dell’opera di teatro di Jean-Louis Bauer (Premio de Teatro de SACD 1997). –
– “La Controversia de Valladolid”. Con il Teatro Itinerante de Venezuela, direzione e messa in scena della piece teatrale di Jean Claude Carrière/Antonio Diaz-Florian –
– “Ordo Virtutum” di Hildegard Von Bingen – con la Cantoría Alberto Grau. Messa in scena multimediale e direzione teatrale dell’opera lirica/corale. Festival “America Cantat” 2000
Saggi sul cinema
Guide to the films of Luis Buñuel, (Institute of life long learning at Dartmouth)
Guía anotado de las películas de Luis Buñuel, (Ateneo de Caracas)
<<Que boten mis cenizas al aire y se olviden de mi>>. Luis Buñuel cineasta de realidad y sueños, Edición Xdemanda, Caracas, 2001
Sceneggiature originali
Jacques Espagne e Luis Armando Roche, Guión de la pelicula de largometraje “Aire libre”, (Ediciones de Letras y Comunicación de la Fundación del Nuevo Cine Latinoamericano Capítulo Mérida)
[1] Buñuel è un cineasta unico: poetico, libero – afferma Roche in Que boten cenizas al aire y se olviden de mi. Luis Buñuel cineasta de realidad y sueños, (Caracas, 2001) – che va oltre l’estetica e la tecnica. Il cineasta impone, nella sua opera come nella sua vita, una propria morale, un’etica e un punto di vista politico sulla società. La crudeltà e la violenza di alcuni film sono l’espressione e l’estensione, a suo dire, della realtà che gli era intorno. Lo “humor nero”, liberatore, provocatore e caustico, come fu definito dai surrealisti, è una costante nella sua opera.
Buñuel è ardito, sovente repulsivo e violento. Come artista “sposta” il limite oltre il ragionevole. L’opera di Buñuel è sconcertante, morbidamente sublime, demoniacalmente angelico, pertinentemente contraddittorio, satirico, fantastico, ambivalente, misteriosamente formale, umoristico (nel senso surrealista della parola), irragionevole, spagnolo e sublime.
[2] Esercita la professione di critico dal 1976 sul quotidiano El nacional. E’ collaboratore stabile di riviste nazionali e internazionali con saggi sul cinema nazionale e latinoamericano in generale. E’ coautore dell’opera Panorama histórico del cine en Venezuela edito dalla Fóndacion Cinemateca Nacional nel 1997.
[3] E’ attualmente il più autorevole critico cinematografico e storico del cinema venezuelano, autore di numerosi saggi tra cui El cine en Venezuela (Caracas, 1979) e il singolare Acechos de la imaginación (Caracas, 1993), testo che riflette i suoi molteplici interessi culturali, in special modo la letteratura, originato da alcune sue trasmissioni radiofoniche alla Radio Nacional de Venezuela. E’ stato inoltre per molti anni presidente della Cinemateca Nazionale.
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