SUDAFRICA: L’APARTHEID SECONDO IL CINEMA
CINECRITICA n. 49 ( gennaio-marzo 2008)
SUDAFRICA: L’APARTHEID SECONDO IL CINEMA
Soweto, Sudafrica, Luglio 2007
Al centro dell’immensa township di Soweto, il museo dedicato al ragazzo quattordicenne ucciso dalla polizia durante gli scontri studenteschi del giugno ’76 trasuda immagini di quella giornata che segnò una tappa fondamentale della storia del Sudafrica. Immagini fotografiche in bianco e nero, scattate da Peter Magubane, nero, fotografo della gente nera, immagini cha parlano di un dolore antico, sebbene mostrino ferite del tempo presente.
Accanto a queste, brani filmati di guerriglia, di morti ammazzati, scene di massa con al centro la rabbia degli studenti neri. E le ormai leggendarie parole di Martin Luther King, pronunciate con furore, rabbia e speranza nel discorso di Washington. Anche dal Sudafrica i sogni sono ormai scomparsi.
A Johannesburg, nel museo dell’Apatheid, di recente costituzione, le immagini filmate si moltiplicano su piccoli e grandi schermi. Tutta la verità dell’Apartheid raccontata in sequenze di rabbia, violenza, odio, speranza, proiettate all’infinito per diffondere la conoscenza della verità.
Come accade fin dai tempi della sua apparizione nel mondo conosciuto, il cinema si appropria della realtà imprigionandola in una struttura drammatica, che alla verità preferisce la verosimiglianza. Un esempio per tutti: quando chiesero a Spike Lee per quale ragione avesse scelto semplicemente di filmare il disastro di New Orleans nel documentario When leavess broke (Quando gli argini si spezzano), piuttosto che scegliere di farne un vero film, il regista nero rispose che non vi sarebbe stato alcun attore al mondo capace di rendere il senso di quella tragedia.
Ciò significa che se Hollywood preferisce le storie, non è soltanto per una mera esigenza commerciale, ma perché alcuni personaggi che la Storia produce di continuo, come in questo caso Nelson Mandela o uno Steven Biko, possiedono qualità intrinseche tali da farne dei campioni di drammaturgia. Ma perché questo possa emergere con chiarezza, indiscutibilmente, è necessario metterli a confronto con due personaggi minori, con i quali definire aprioristicamente una dialettica che in qualche modo si può anche ritenere politica a patto però di collegarla ad un umanesimo liberal, invero piuttosto generico.
E’ quanto accade in due film apparentemente diversi tra loro ma proprio per questo notevolmente simili. Parliamo di Grido di libertà (Cry freedom) 1989, di Richard Attenborough e del recente Il colore della libertà (Goodbye Bafana ), 2006, di Bill August .
Nell’uno e nell’altro, alle figure dei due grandi leader rivoluzionari si è voluto giustapporre due figure altrettanto reali, una guardia carceraria e un direttore di giornale, che prontamente diventano personaggi strumentali a sostegno di una tesi politically correct che vede l’equiparazione di neri e di bianchi nel nome dell’ideale di liberazione del Sudafrica dalla vergogna dell’apartheid.
L’altro fondamentale elemento che unisce entrambe le opere è costituito dalla presenza della famiglia come testimonianza vivente di un radicato way of life bianco.
Due personaggi sui quali si innerva la tesi civile di entrambi i film: nella società bianca si possono aprire crepe morali e sociali da consentire a singoli soggetti-personaggi di interagire in senso democratico con la parte antagonista nera.
Ecco dunque che il giornalista bianco del film di Attenborough s’impegna in prima persona a fare uscire dal paese il proprio memoriale, seguito dalla sua stessa famiglia, contribuendo in maniera definitiva alla lotta che un tempo sembrava perduta, contro l’apartheid.
E ancora. Il capo dei secondini di Robben Island del film di August, farà sopportare alla sua famiglia, in nome di una verità e di una giustizia possibili, il suo continuo trasferimento in destinazioni diverse. Di lui resterà il dialogo di reciproca comprensione e fors’anche di amicizia con l’ospite più autorevole e amato di Robben Isalnd, Nelson Mandela.
Tuttavia in entrambi i film si è intenzionalmente voluto porre in ombra la parte “nera” di tutta questa storia. Nel primo caso, la grande figura di rivoluzionario Steven Biko (1946-1977), vittima di uno dei crimini più odiosi del regime, forse per intessere attraverso un simile personaggio, del resto assai poco noto in occidente, una possibile dialettica politica che forse avrebbe potuto nuocere, più che alla tesi del film, al suo equilibrio narrativo. Nel secondo, invece, non vi è una sola sequenza che riguardi realmente la vita che si svolgeva nel carcere, tra i detenuti di colori, la loro vita e le loro speranze, ma soprattutto il rapporto di lealtà e di solidarietà che i più anziani avevano rispetto ai giovani. Insomma, per ragioni da imputare a logiche prettamente hollywoodiane, si è inteso dimenticare la parte più reale e corale del conflitto, quella delle vittime, dei rivoluzionari, dei disperati, dei veri eroi di un disperato eppure vitale Sudafrica in lotta per la libertà.
Nel film di Euzhan Palcy, Un’arida stagione bianca, (A dry white season, 1989), che per taluni versi si ricollega ai due precedenti, un professore bianco ingaggia un’impari lotta contro l’apartheid, le sue regole e la sua esasperata violenza, nel tentativo vano ma onesto di difendere un giardiniere di colore.
Il fatto che la violenza non risparmi neppure i bianchi, quando essi si pongono contro il sistema politico, è tutto sommato un’ipotesi coraggiosa oltre che assolutamente verosimile.
Ciò che più interessa è notare come vi sia una duplice uccisione del protagonista, quella dell’isolamento e del tradimento da parte della sua stessa famiglia, e naturalmente, quella fisica. Essa, a sua volta, innesca, nell’ultima sequenza, un atto di violenza, ma di segno opposto, che il regista sembra voler giustificare come legittima e necessario, a dispetto della tesi, un tempo espressa, (siamo nel 1948), dallo scrittore liberal sudafricano Alan Paton (di cui si dirà più avanti), e peraltro rivelatasi profondamente errata, seppur espressa in buona fede, secondo cui solo con la forza della fede cristiana sarebbe stato possibile vincere l’ingiustizia.
La prospettiva critica della realtà sociale cambia rispetto alle opere anglo-americane di cui si è appena parlato, quando ci si avvicina alla rappresentazione, per così dire, autoctona di quella realtà.
Ma prima di affrontare opere di registi sudafricani come Afrikander (Afrikander), di Oliver Schmits, 1989, e Tsotsi, di Kevin Hoods, 2004, occorre ricordare Bopha, 1993, (Bopha significa letteralmente “trattenere”, “arrestare”) opera prima di Morgan Freeman, collocabile, per così dire, in una dimensione intermedia tra le opere anglo-americane sull’apartheid e quelle di produzione sudafricana
L’essere afroamericana, le consente di avvicinarsi ancora di più alla sensibilità nera ma anche alla problematica razziale dell’apartheid vista come un problema esclusivamente nero. Sebbene la produzione le imponga due attori semi divi, il bianco Malcolm Mc Dowall e il nero Crispin Glover, il racconto delle contraddizioni sociali e umane in seno alla comunità nera della township di Soweto si rivela robusto e credibile, con il suo punto di forza nel conflitto familiare generazionale tra un padre militare zelante e onesto, ma al servizio dei bianchi, e il figlio che ne rifiuta l’autorità. Si tratta di una prospettiva critica inedita, che dialetticamente si salda con il principio della rivolta giovanile nel sessantotto in occidente. Il film possiede lo spessore dell’apologo morale, proprio nella capacità di spingere il realismo del racconto verso un esito che è innanzitutto profonda riflessione sulle cause e gli effetti della sottomissione alle logiche del potere, di un potere in questo caso bianco, ma con implicazioni ben più generali.
Quanto alle due opere di autori sudafricani, si dirà innanzitutto che fanno proprio un punto di vista sulla realtà decisamente nero, ossia quello di due personaggi “negativi”, di due adolescenti, rispettivamente un ladruncolo parassita e un delinquente. E’ altresì interessante notare come tali testimonianze “sub-coscientia” siano in realtà funzionali allo smascheramento dei meccanismi della violenza e della coercizione messi in atto dai bianchi, e di cui entrambi i protagonisti sono direttamente o indirettamente vittime.
Ma se Afrikander di Oliver Schmits, conserva la freschezza e il ritmo di un racconto di formazione dove l’elemento di spicco è la frammentazione temporale dei gesti e delle azioni concrete del giovane protagonista di colore, il recentissimo e premiato Tsotsi dell’ex avvocato Gavin Hoods (uno che ha vissuto in prima persona la violenza repressiva del regime di apartheid), frugando tra gli stracci di una giovane vita dissipata nei riti sacrificali della violenza e della morte, cerca forzatamente quei buoni sentimenti hollywoodiani, rifiutati sulla carta, da buon sudafricano, ma li recupera, si badi, nella forma più ipocrita di riscatto sociale, tradendo deliberatamente lo spirito del romanzo di Athol Fugard, da cui Hoods trae il suo film.
Quando poi il cinema sudafricano si pone di fronte ad un’opera classica della propria letteratura, come il romanzo di Alan Paton, scrittore bianco, Piangi, terra amata, 1946, esso si sente chiamato a ricorrere alle forme classiche del racconto filmico, proprio come avviene in Cry beloved country, 1995 di Darrell James Roodt per raccontare la vicenda di un pastore protestante, dello Zulu Natal, che decide di recarsi in viaggio a Johannesburg, per rintracciare il figlio che si è smarrito nel sottobosco della malavita della grande metropoli sudafricana. Nel film come nel testo letterario, che gli è decisamente superiore dal punto di vista stilistico, è possibile rintracciare i primi segnali di quello che di lì a poco sarebbe diventato regime di discriminazione razziale, quasi per diritto divino, sebbene il forte realismo morale del testo venga come annacquato da uno stile magniloquente e retorico, di netta impronta nordamericana.
Eppure siamo convinti che vi siano altri modi di raccontare l’immane tragedia che fu l’Apartheid sudafricano. Modi che spaziano dal film di montaggio in cui la somma delle immagini del passato, (di cui il museo di Johannesburg è una straordinario archivio “in movement”), dà la misura esatta non solo della memoria storica, ma anche del sentimento che oggi lega gli autori sudafricani a quella terribile esperienza. Oppure al documentario puro, che si forma attraverso la ricerca visiva dei luoghi e delle persone, dei testimoni e dei protagonisti e delle vittime di una tra le più miserabili barbarie del ventesimo secolo.
Forse perché, ci scopriamo oggi piuttosto stanchi dei molteplici inganni della fiction, anche quando si veste dei panni magnifici del cinema.
Filmografia essenziale:
Attenborough Richard, Grido di libertà (Gran Bretagna, 1989)
August Bill, Il colore della libertà (Svezia, 2006)
Darrell James Roodt, Cry, the beloved country (South Africa, 1995)
Freeman Morgan, Bopha (Usa, 1993)
Hoods Kevin, Tsotsi (South Africa, 2004)
Nelson Ralph, Il seme dell’odio (Stati Uniti, 197 )
Schmits Oliver, Afrikander (South Africa, 1989)
Riferimenti letterari
Fugard Athol, Tsotsi, Marietti, Genova 1991
Paton Alan, Piangi, terra amata, Bompiani, Milano 1958