BAMBINI SOTTO LA TENDA DEL CIRCO, PERPLESSI
CINECRITICA n. 44 ( ottobre-dicembre 2006)
BAMBINI SOTTO LA TENDA DEL CIRCO, PERPLESSI
1. Si potrebbe iniziare con l’immagine terribile di una bambina vietnamita, nuda, che fugge piangendo e lasciando dietro di sé le rovine della città, distrutta dal napalm nordamericano. E’ l’immagine shoccante dell’infanzia distrutta dalla cieca crudeltà degli adulti, che più di tutte ha fatto il giro del pianeta. Ma è altresì la testimonianza vivente di come il mondo dell’infanzia sia entrato di forza nell’immaginario collettivo con tutta la sua bellezza e innocenza, dentro il riquadro di una fotografia o nell’inquadratura cinematografica.
Ci è ormai consentito affermare che il cinema, ad esempio, si sia impadronito dell’idea, dunque dell’immagine Dell’infanzia, attraverso l’utilizzo dei bambini come attori, costringendoli come per un sortilegio, a diventare improvvisamente adulti pur tuttavia rimanendo se stessi.
Recitando accanto agli adulti storie scritte da adulti, i bambini ne assorbono progressivamente le istanze. Si dovrebbe, paradossalmente, inventare un cinema di bambini fatto da bambini per consentire a questi ultimi di ritrovare l’esatta misura dei propri gesti e della propria età. In altre parole, nel cinema, il bambino ha smarrito l’anima, proprio come gli aborigeni australiani di fronte alla civiltà delle macchine, ottenendo in cambio un corpo nuovo, un simulacro entro cui specchiarsi e ritrovare i tempi dell’uomo anche in un solo fotogramma.
Facendo di un bambino un attore a tutti gli effetti, il regista opera altresì una sorta di violenza, sebbene lo scopo finale sia l’inserimento del soggetto entro una prospettiva dialettico-esistenziale e visiva del tutto conforme ad un modello strutturale e psicologico adulto. Ciò significa innanzitutto che il bambino è chiamato a contribuire alla realizzazione di un modello di esistenza fittizio, senza poter accedere per ovvie ragioni a tutte quelle motivazioni di ordine estetico e culturale che sottendono la realizzazione di un film. D’altro canto senza la presenza dei bambini, non esisterebbero le storie, o almeno certe storie. Non è un caso poi che si sostenga quanto sia difficile dirigere un bambino, fargli dire e fare ciò che vogliamo. E non stiamo parlando semplicemente dell’escamotage usato da Vittorio De Sica in “Ladri di biciclette”, rievocato nell’ormai famosa sequenza del film di Ettore Scola “C’eravamo tanto amati”, 1979. Si tratta piuttosto di spingere un bambino a compiere l’atto forse più lontano dalla mentalità infantile, ossia di recitare la parte di qualcun’altro. Egli è se stesso e basta. Eppure non smettiamo di commuoverci nel vedere bambini muoversi sullo schermo, quasi a ricordarci la nostra innocenza perduta, forse ignorando che neppure essi possono vantarne il primato. Al pari di essi, siamo costantemente sedotti dallo spettacolo della finzione.
2. La massiccia presenza dei bambini nell’immaginario filmico mondiale, riflette, per così dire, l’evoluzione (o l’involuzione) del comportamento umano e sociale, ma anche della psicologia individuale e collettiva dell’uomo adulto contemporaneo, facendosi al tempo stesso portatrice di testimonianza e di critica dei valori rappresentati. In altre parole quando i bambini irrompono, ad esempio, sulla scena, non sono più l’innocente icona familiare dell’immaginario cattolico-fascista del ventennio nero, ma assurgono a protagonisti di avventure umane quotidiane che forse non sono in grado di comprendere ma certamente di subire. Il cinema farà spesso di essi degli eroi proprio in quanto vittime di una storia più grande (la guerra, la miseria, la disoccupazione) che non gli appartiene ma dalla quale, di fatto, non sono esclusi. Possiamo dunque affermare che, paradossalmente, il primo vero ingresso dei bambini nel cinema, ossia l’utilizzo totale della loro immagine e identità, viene a coincidere con il più alto livello di senso narrativo e di consapevolezza critica del proprio ruolo. A dirigerli sono proprio quei registi che per primi avevano sentito l’urgenza di rinnovare la forma e il linguaggio cinematografici parallelamente ad una più profonda presa di coscienza politica che la guerra e la lotta di Resistenza aveva reso necessaria e urgente.
Ma i bambini esigono da sempre che si crei intorno a loro un mondo parallelo, fantastico, immaginario con il quale parlare e dentro il quale muoversi e che sia soprattutto una loro personale creazione. Al contrario il cinema prefigura un mondo fantastico a cui i bambini dovranno in ogni caso aderire, sia in veste di protagonisti che di spettatori. In altri casi, invece, si trasformano in osservatori, in testimoni e talvolta in vittime delle miserie degli adulti, finendo per diventarne, loro malgrado, la coscienza inquieta. L’intera storia del cinema si pone come avventura dell’interazione con l’idea di innocenza. Ogni fase storica e sociale del secolo passato, attraversata dall’immaginario filmico, è altresì segnata da un particolare rapporto con essa. Il paradigma infanzia-innocenza è la metafora più eloquente di un’arte nata a somiglianza dell’infanzia dell’uomo, ovvero della ri-scoperta del mondo attraverso le immagini in movimento. Bambini, dunque, come spie di un malessere morale e sociale di cui talvolta non sono chiari i contorni. Come nel caso della cosiddetta “metafisica del diavolo” nel cinema nordamericano degli anni settanta. In un’opera che a suo tempo parve assai disturbante come “L’esorcista”, 1972, di John Boorman, il male s’incarna proprio nella delicata figura di una bambina, (perpetuando, per così dire, la sacra mitologia del sacrificio degli innocenti) che, durante le ripetute fasi della possessione, come in una trance, essa appare come deforme, come un’oscena caricatura di un essere umano adulto. Si tratta forse del limite estremo cui il cinema è giunto nel trattamento di personaggi-bambini. In realtà sono perlopiù gli adulti ad essere minacciose presenze come ad esempio il vecchio esorcista del film cult di Boorman. Ma quanti “mostri” adulti con benevoli sembianze essi hanno potuto incontrare durante la loro lunga ricerca dei molti tesori della vita umana, disseminati ovunque lo sguardo e il cuore di un bambino sapesse giungere? Al principio è la doppia scoperta del mondo adulto attraverso uno strumento, il cinema, con cui l’adulto sognò un tempo ormai lontano di ridiventare bambino. E dunque questo doppio sogno vissuto da un bambino, ben presto si trasforma in una sorta di iniziazione alla vita, di educazione a tutti quei comportamenti che saranno necessari alla formazione di un uomo. Compresa la finzione che nel cinema è elevata al rango della più alta verità che i bambini che recitano le storie inventate dagli adulti devono imparare a comprendere perchè la vita reale assomigli sempre più alla finzione. Dunque il complesso rapporto tra l’infanzia e il cinema si configura più come un vero e proprio labirinto che un percorso lineare strutturato su due linee guida: l’una, dove la figura dei bambini è comprimaria, l’altra, dove invece è protagonista. Linee che spesso si mescolano, si confondono entro quell’idea di trasversalità iconografico-narrativa di cui è ricca ciò che ancora chiamiamo storia del cinema.
3. “Un bambino corre via felice, accanto alla sua palla, proprio di fronte al padre che lo osserva compiaciuto”(1); ecco un fotogramma rassicurante dell’immaginario familiare che quasi tutti vorrebbero appeso al muro della propria stanza Ma è interessante osservare come, nel docu-drama del regista di origine polacca Andrew Jarecki, Una storia americana, 2004, esso assuma una configurazione per così dire, inquietante. Dentro la coltre protettiva di una famiglia apparentemente felice, un professore di liceo abusa sessualmente dei suoi figli e dei loro compagni di scuola. L’adulto è l’orco, il bambino, la vittima. A fronte di una storia di ordinaria violazione che trova un facile parallelo nel film di Todd Solondz, Happyness, 1998, subentra un altro interessante elemento: il voyeurismo visivo. L’uomo riprende tutto con una videocamera amatoriale: i gesti, i sorrisi dei suoi familiari le immagini diventano un altro strumento di appropriazione. Dietro la loro apparente innocenza (ma in realtà non esistono immagini “innocenti”) si cela una deliberata volontà di colpire colui che è innocente. “Happyness” mostra come un certo tipo di esistenza borghese dove ogni cosa non è neppure apparentemente al suo posto, non riesca affatto ad essere turbata da un padre psicanalista e pedofilo che abusa ripetutamente degli amichetti del figlio a cui invece vuole impartire un’educazione sessuale morbosamente ambigua. Infatti, nella visione nichilistica della società borghese del giovane Solondz che può essere giustamente accostata a quella di un regista austriaco come Michael Haneke, non c’è più posto per qualsivoglia dimensione tragica; la sua “famiglia” cancella, esclude in un perfetto connubio di cinismo e di indifferenza, la parte “malata”, l’uomo che in una sequenza chiave in cui si concentra la massima drammaticità, dichiara al proprio figlio di avere penetrato i suoi amici, atto che lo ha reso felice. Alla domanda del bambino se lo avrebbe fatto anche a lui, il padre risponde a difesa della sua integrità e in fondo della stessa idea di famiglia in cui ha sempre creduto. Al di là di tale paradosso, a resistere è solamente la sessualità liberata del bambino, il quale di fronte alla famiglia falsamente riunita, pronuncia la sola frase vera possibile: ”sono venuto”. Il confine tra l’orco e il protettore di bambini appare sempre più labile e ambiguo in un film curioso e scombinato come “The Ogre”,1996, di Volker Schlondorff. L’apologo del giovane che tutti vorrebbero ritardato, in realtà apolitico e puro, il quale, durante il nazismo in Germania, diventa maestro, protettore e amico dei “pulcini“ della gioventù nazionalsocialista, è un paradigma di quell’idea di innocenza che, raro dono in un essere adulto, suggerisce una comunicazione “diversa”, più umana tra soggetti di età diversa. Valga per tutte l’icona dell’immaginario collettivo che è la sequenza del “Frankenstein”, 1933, di James Whale, in cui la “creatura”, ossia il mostro per tutti gli “altri”, gioca nel prato con la bambina, la sola capace realmente di intravederne l’umanità. In molti film nordamericani tutt’altro che memorabili, l’uso strumentale dei bambini, ha assolto esemplarmente la funzione di detonatore consolatorio portatore di consenso e non diversità rispetto al quadro narrativo-descrittivo più convenzionale. Con sempre più evidenza si dirà invece che le opere che più interessano questo saggio, sono quelle in cui la presenza dei bambini definisce una dialettica infanzia-età adulta tesa a far comprendere il mondo e le sue dinamiche individuali e collettive.
In un tardo film di Renè Clement, La corsa della lepre attraverso i campi, 1972, c’è una sequenza nella quale il protagonista, da bambino, in piedi su una ripida scalinata, vorrebbe giocare con un gruppetto di zingari, mostrando loro un sacchetto di biglie di vetro; con tono di sfida, il loro capo, poco più grande di lui, taglia il sacchetto con un coltello facendo rotolare a terra tutte le biglie. In quel momento risuona nella memoria del bambino una frase pronunciata da sua madre che dice: “se fai il cattivo bambino, gli zingari ti portano via”.
Dunque, dietro questo trito luogo comune si è sempre celata una falsa ma comoda verità: il diverso è l’altro. L’altro è il vero pericolo per ogni bambino. Accade tuttavia che siano proprio gli adulti più vicini, magari gli stessi genitori, (come accade in molto cinema contemporaneo), a fornire e a imporre, talvolta, modelli di comportamento negativi, il cui livello di violenza varia a seconda del contesto sociale e delle dinamiche psicologiche in atto.
Se l’ottusa e permanente crudeltà della guerra getta un’ombra sulla presunta umanità degli adulti, privando i bambini dei loro affetti, tocca a questi ultimi scavare un solco tra essi e il “mondo esterno” scavando tombe, rubando croci per animaletti morti, metafora infantile della sepoltura delle vittime della guerra, ma anche “gioco proibito” di separazione totale dal quel mondo incomprensibile da cui non possono che sentirsi estranei.
Note.
1.Moreno Gentili, Lo sguardo nomade nell’Eldorado d’Europa, pag.122, Archinto, Milano 2004